LA FINESTRA SUL MARE
LA FINESTRA SUL MARE
Quando non hai bisogno di nessuno stai bene con tutti.
Etimologicamente “Nessuno” dal latino “ne ipse unus”… cioè: “neppure uno”.
Il “non aver bisogno di nessuno” è una vera strategia per poter aver qualcuno e innanzitutto avere se accanto.
Cosa vogliamo intendere con questo ? La persona capace, è quella in grado di saper rinunciare agli altri, non per sport di isolamento, ma per la capacità di rendersi autonoma, anche al solo scopo di poter realizzare relazioni stabili.
La stabilità si prepara “in casa propria” , ovvero dentro di se, per non fomentare e reiterare, nell’arco della vita, terremoti relazionali.
Non si tratta affatto di una tecnica per poter realizzare rapporti significativi, o per incastrarsi nel proprio individualismo, ma della necessità di realizzare un vero e proprio cambiamento di atteggiamento, orientato verso di se, sulla centralità della propria esistenza, aspirando alla propria auto realizzazione.
Le persone non auto realizzate, orientano il proprio equilibrio verso chi può sostenere le proprie cause, decentrando il baricentro della propria esistenza verso altri perimetri, così edificando i pilastri in terreni altrui, verso la propria destabilizzazione.
Quando il prossimo detiene il merito di farci acquisire il senso di noi, l’investimento diviene esattamente pari a zero o nullo e decaduto.
Andiamo sempre in perdita, sulla base auto svalutativa di noi stessi, quando non ci sentiamo meritevoli e depositari delle potenzialità che la vita ci ha donato, ma percepiamo gli altri, i depositari, i fortunati di tali risorse.
Ci auto sabotiamo, mettendo un silenziatore alla nostra anima, rinunciamo a noi stessi, appoggiandoci sui meriti e sulle risorse altrui.
Non aver bisogno di nessuno, significa, aver bisogno di se, poter contare su se stessi, sulla propria stima e fiducia. Gli altri, sono la loro strada e percorrono comunque e sempre le proprie formazioni, seguendo parallelamente le quali, ci sentiamo prima o poi inadeguati, inefficaci.
La nostra strada, è la strada adeguata, è resilienza, ma potremmo non incontrarla mai senza una lettura attenta dei nostri talenti e delle nostre naturali attitudini. Chi si accontenta, non gode, ma si annoia, si deprime e si ammala.
Non aver bisogno di nessuno, non significa solo fare il lavoro giusto, sulla base delle proprie attitudini, ma fare un lavoro dentro di se, per illuminarci su come siamo fatti e funzioniamo.
Il non aver bisogno di nessuno, per stare bene con gli altri, è alle antipodi delle diverse forme di dipendenza e si realizza solo con l’auto realizzazione.
La mancata auto realizzazione è al vertice delle frustrazioni e delle nevrosi personali, e se pensiamo al rapporto nell’ ambito delle alle relazioni, un nevrotico, più un altro nevrotico, non fanno somma zero, ma fanno un nevrotico al quadrato.
Nella relazione più profonda, entrambi non hanno bisogno più di nessuno, perché essendo uno, secondo l’etimologia, sono esattamente nessuno, come perfetta fusione di intenti, perché sono stati entrambi rinunciatari della propria realizzazione fondata sugli altri.
L’ auto realizzazione è alla base della propria serenità e della ansimata felicità.
giorgio burdi
ContinuaTERAPIA DI GRUPPO : Lettera alla Squadra: I soldati del conflitto
TERAPIA DI GRUPPO
Lettera alla squadra
I soldati del cambiamento
Hai desiderato ed imparato a guardare in faccia i tuoi problemi, che per vivere inizialmente è necessario accettare ed adattarsi, che il perfezionismo è una nevrosi senza uscita e se divieni più malleabile ne sei fuori. Hai imparato che per migliorare devi entrare ed andare fino in fondo al tunnel se vuoi accendere la luce, bisogna essere squadra per vedere diverse prospettive di uscita, non guardare solo dagli occhi tuoi.
E se ti impongono, ti cambiano le abitudini, mantieni duro, e pur di vivere, trovi sempre una nuova strada. Ne è fuori, chi non si arrende, chi combatte per il suo tempo e i suoi spazi, prende in mano la sua vita e non molla p mai.
Se la guerra che stiamo combattendo fosse armata; se ci avessero chiamato al fronte, in trincea, schierati contro un esercito nemico per difendere confini e valori, figli e spose, madri e idee, avremmo perso. Sicuramente. Ma non solo noi, anche gli avversari.
Saremmo stati entrambi immobili, fermi, disorientati da una serie continua di segnali di resa e ordini d’avanzata. Non ci avremmo, alla fine, capito niente. Tutti. Proprio come sta succedendo oggi, sul fronte delle nostre case, sommersi da mille versioni, analisi, commenti e soluzioni per una crisi mondiale, senza precedenti e che va rivelando, oltre la tragicità dei numeri, un’umanità da ricostruire.
Una ricostruzione che hai imparato a conoscere. scegliendo il percorso d’analisi e che, settimana dopo settimana, ti porta a ricostruire le tue certezze, la tua abilità, la tua stabilità, il tuo essere profondo.
Per quanto singolare e grave, la pandemia che ci circonda sconta la contraddizione del nostro tempo: il diritto di parola concesso a legioni di imbecilli, per dirla con Eco.
All’ ansia per la salute, propria e dei propri cari, si aggiunge l’ansia di questo navigare a vista, senza orizzonti e approdi.
Ma tu che fai analisi, conosci l’ansia, più di chiunque altro e la vivi, tu che la sai risolvere e la combatti, ci dialoghi continuamente: quando il capoufficio non ti paga, quando il tuo amore non ti ascolta, quando il passato torna a farti visita, quando non ti senti come il resto del mondo, quando ti escludi da una seconda occasione. La conosci perché hai accettato di sederti in un gruppo e vuotare il sacco della memoria. La vivi, ogni volta che il fallimento ti prostra con la faccia a terra e non ti fa respirare.
Il mondo ha riscoperto il sentimento della paura, dell’angoscia, sotterrato chissà dove dagli impegni, da un movimento ossessivo e continuo. È successo soprattutto per una contingenza: le necessarie restrizioni dei governi ci hanno messo faccia a faccia con noi stessi, con i nostri beni di prima necessità, con tutto il campionario degli istinti, pronto ad esplodere.
Ed anche il silenzio della notte appare più pesante, perché nasconde un presagio fastidioso, un timore a cui non si sa dare una sagoma.
Come i tuoi fantasmi che ora chiami per nome, avendo faticato mesi interi per farteli amici. Presentandoli, in modo precisissimo ai tuoi compagni di seduta, perché tramite il rispecchiamento, ti aiutassero a guardarli in faccia per andare avanti, aldilà.
E ora? Che si fa? Che fine hai fatto? Nell’ “ora più buia” conviene davvero mollare la presa, in attesa di tempi migliori ? Te, Il gruppo, la squadra, ha lavorato nelle notti più oscure di ognuno, e adesso non si può fare lo stesso ? Perché ci hai mollati nella notte, pensiamo ancora di essere una squadra, ti abbiamo dato venti mani, Tu adesso dove sei ?
A gennaio, quando eravamo ancora lontani osservatori della strana influenza cinese, è uscito un film, che ha riscosso grande successo e ha fatto incetta di premi. Il titolo è “1917 di Sam Mendes”. Parla di due giovani caporali che devono attraversare l’ostile territorio nemico, per consegnare un messaggio a un battaglione di 1600 uomini.
Così facendo, impedirebbero a quei soldati, di cadere in una trappola mortale ordita dai tedeschi.
La scelta cade su di loro perché, nonostante la feroce crudeltà della guerra e l’apatica stanchezza che regna tra i commilitoni (la guerra dura già da tre anni e non si capisce ancora come finirà), hanno saputo conservare un rapporto d’amicizia, uniti, schietti e sinceri, non sempre idilliaci, ma comunque onesti e leali.
Aldilà della trama, della sua evoluzione e conclusione, c’è un altro messaggio che circola e che arriva dritto al cuore, lo veicola un altro dei protagonisti del lungometraggio, il Colonnello Mackenzie: “La speranza è una cosa pericolosa!”. Ci fa solo attendere passivamente. L’Unità invece crea la certezza di farcela, ma tutti insieme, da un rispecchiamento ad un altro, si esce vittoriosi. Non lo abbiamo apprezzato tantissime volte ?
E la storia dei due soldati è quella di un’amicizia che riesce a trasformare la speranza, in azione, la toglie dal mondo fatato della retorica bellica (uno dei due vende una medaglia d’onore per una bottiglia di buon vino) e la trasforma in potenza in mezzo alle bombe e ai cadaveri abbandonati dei campi di battaglia.
È questa speranza – azione, intrisa di sangue, evitamenti e derisioni a salvare 1600 uomini e ad aprire la strada verso la vittoria finale.
Oggi, il nostro momento storico, per quanto indecifrabile e difficile ha bisogno di questa unità di speranza azione per risollevarsi. Finiranno gli inni nazionali, i flashmob sui balconi e non sapremo ancora se andrà tutto bene o meno, senza rispecchiamenti, partecipazione ed unità.
Ai due, sul varco delle linee nemiche, viene data una pistola lanciarazzi. Se non vogliono proseguire nella loro missione devono lanciare un razzo verso il loro accampamento, così saranno salvati; se decidono di continuare, devono lasciare l’arma a terra, perché gli altri, seguendoli, capiscano che non si sono arresi.
Tu, continua ad avanzare, lascia l’arma a terra. L’analisi a qualsiasi condizione, a qualsiasi modo è un passo costante verso la propria liberazione, maggiormente adesso.
Gli eventi del mondo o li eviti o li guardi in faccia. Non ricordi? L’hai ripetuto a mente, un sacco di volte, in ogni singola seduta: adesso sono qui, non posso arrendermi !
Con tutti i mezzi possibili, per me, per te, per tutti, sarebbe meglio non disgregarsi, restare insieme: i tuoi Amici partigiani sono sul fronte.
luca & giorgio
ContinuaLA VITA PERFETTA : La perfezione è partire dalle cose “sbagliate”
LA VITA PERFETTA
La perfezione è poter partire dalle cose “sbagliate” . Una grazia imperfetta o un perenne conflitto?
Alla base delle nevrosi e al vertice di certi malesseri c’è la prospettiva della perfezione. Miriamo in una certa direzione e la vita quotidiana ci presenta tutt’ altra. Ci impegnano a non sbagliare e ci ritroviamo punto e a capo.
La responsabilità è soltanto nostra, ma ci accettiamo per quello che siamo, o siamo accaniti in un processo autodistruttivo ? Se spesso sbagliamo, non sarà infondo che siamo umani e cerchiamo esattamente ciò che poi definiremmo “errore” ?
Nell’ errore c’è una prospettiva di cambiamento, paradossalmente lo cerchiamo, ma per cambiare. Perché allora lottarci contro ? Non è un invito a sbagliare, ma quando lo reiteriamo, vogliamo solo cambiare, esclusivamente cambiare.
La vita ci offre continuamente delle prove e, alcune meraviglie imperfette, che accettiamo come balsamo per quelle prove, attraverso le stesse meraviglie, imperfette, veniamo riportati alla grazia di noi stessi, ma la sua imperfezione ci rende vulnerabili.
Rischiamo di rimanere eternamente in conflitto, crogiolati dalle nostre nevrosi. Allora, sarebbe più giusto accettare uno stato di grazia imperfetto o una vita perfetta tardiva a venire ? Punti di vista significativi per fare della propria vita, una vita di dolori, o una vita più leggera, più serena, di grazia, di meraviglie, ma imperfetta.
Ci meritiamo il meglio dalla vita, indubbiamente, ma il meglio è sempre opera di edificazioni faticate e tortuose. La vittoria di un secondo è frutto di fatiche e sconfitte di anni. Ma la vita di grazia imperfetta non sarebbe ugualmente tortuosa ? Sicuramente, ma molto meno di una perenne nevrosi senza alcuna grazia.
Allora, non sarà che le meraviglie e le grazie imperfette, intrise anche esse di imperfezioni ed errori, possano essere il tramite balsamico, che noi scegliamo, come rampicata verso la perfezione ?
La perfezione può essere possibile ed esistere, accettando di essere sbagliati, come rampicata attraverso le meraviglie imperfette.
È indispensabile accettare l’ imperfezione e il delirio di questo periodo per Impegnarsi nel recuperare, senza accettazione ci sarebbe il vero delirio e la psicosi sociale.
giorgio burdi
Continua
SANO EGOISMO PER GUARIRE
Sano Egoismo per agire i propri sogni
Ognuno di noi ha la sua età anagrafica, ma in realtà, la mente di ogni singolo individuo porta retaggi anchissimi. Ritengo personalmente, che nella maggior parte dei casi, questi retaggi siano molto pericolosi e nocivi, gli vengono insegnati sin da piccolo dai suoi genitori.
Crescendo l’ uomo, identificato come singolo individuo, viene stigmatizzato, plasmato, come un modellabile alle taglie conformate dei modelli confezionati, allentandolo dal suo vero Ego.
Accartocciata sui modelli, ma ribelle sotto, come da foto, nel suo istinto di vita. Le confezioni ci allontanano dal nostro autentico Se, la nostra parte più vera, più viva. Senza il nostro Se, senza i veri piaceri primordiali, l’ essere umano, è destinato alla completa estinzione mentale, condannato a modelli giurassici.
Trasformati in macchine, agiamo, senza piacere, automi, automatici, ieri come oggi, oggi come domani, domani come ieri, senza quell’ istinto di vita che la natura ci ha donato, ma programmati dalla macchina, ma perché il mondo attraverso i suoi meccanismi, ci induce a credere che sia quella la vera vita da pecora ?
Seguiamo la mandria, le strade già persorse, mettere i piedi dove troviamo già altre orme, ci lascia credere che quella sia la via giusta, la via della felicità, il nostro destino, ma sono solo strada già percorse. La realtà è che entriamo dentro delle gabbie mentali.
Molto presto queste gabbie si tramutano in sintomi psicosomatici, il corpo entra in sofferenza, perché bussa prepotentemente alla mente per dire, non è giusto ciò che mi fai, non mi stai vivendo, non vivi te, il tuo Ego-ismo ( io esisto ) la vita, che tu lo voglia o meno, è a colori, non monocromatica o in bianco e nero.
L’amore e il rispetto di se, insegna il rispetto e la cura per gli altri, perché, la cura che parte da se, accoglie gli altri solo quando si sta bene.
Il più grande complimento che possano farci è sentirci dire: “ sei diventato un egoista ” , ovvero un non conformato, non riusciamo più a confezionarti, non entri più nel pacco, o sul comodino, esci fuori dagli schemi, no ti capiamo più, sei fuori dai canoni o dal comune, ma di che taglia sei e chi ti credi di essere?
Ecco questa è la fase che fa la differenza, fase in cui sei una persona, sei una risorsa, quella risorsa che gli altri riconoscerebbero, quando da solo avrai la voglia e la forza di vederla e il coraggio di tirarla fuori.
Romina
ContinuaI valori ci fanno sopravvivere. Il vero valore è essere se stessi.
I valori ci fanno sopravvivere.
il vero valore è essere se stessi.
Sinceramente so che il Bene non dipende dalle istituzionalizzazioni dei rapporti, dai valori definiti e condivisi dal mondo, da convenzioni e convinzioni architettate tali da rendere apparenti sicurezze, ma dal bene propulsore che il presente ci regala naturalmente sempre.
Ci aggrappiamo a condivisioni di moralismi e atteggiamenti di vita rassicuranti, per evitare la solitudine, diveniamo eserciti di insicuri bisognosi del senso di una vita comuni per fuggire il disagio di sentirci unici e soli sotto l’egemonia di comandanti morali che ledono l’identità personale a vantaggio di una omogenizzazione e massificazione sociale.
Diciamo spesso, si fa così e basta, perché la gran parte condividono tali valori, anche se tali valori mettono in gabbia il soggetto ed in una non condizione di vitalità.
La famiglia e le istituzioni rappresentano il nostro credo. Ma credere in quali valori, in una famiglia che possiede la licenza elementare, ma anche la laurea, sono davvero esse i depositari dei valori ?
Il conformarsi e l’accettare condizioni di vita perché “bisogna fare così”, rappresenta il precursore delle malattie nervose e psicosomatiche.
Il corpo lancia delle reazioni e dei segnali di bisogni di liberazione attraverso i sintomi, la mente, contenitore di convinzioni, imprigiona, fustiga e castiga, perché, mente sulle verità che il corpo impone attraverso i suoi dolori proclamatori indiscutibile di verità.
Una guerra dentro, tra verità e finzionI, tra il numero uno e il numero due, il corpo riflesso, sede dell’ istinto naturale di vita e di sopravvivenza, indica la strada maestra, ha i piedi per terra, avverte i profumi e i desideri, la mente è L’ aria fritta, l’ aria celi, i piedi per aria, vive nell’ iperuranio, sulle nuvole di questo aereo, si arrampica sugli specchi delle malattie, avverte i dolori e le paure di non essere omologato.
Noi siamo il valore, il bene assoluto, chi dà valore a se stesso, si emancipa dallo scontato, avverte se stesso come Unico e cresce in maturità ed autostima, si distingue, si domanda sempre, come un bambino il perché delle cose. Mette in discussione gli assoluti familiari e sociali, perché riconosce in se stesso i suoi assoluti, che non vuole insegnare a chiunque ma rappresentano una opportunità di emancipazione, se condivisi.
Ciò che sembrerebbe un nichilismo, invece è la strada verso l’uomo, non verso la sua omologazione e carcerazione, perché ogni uomo potrebbe essere un dono per la sua comunità se si lasciasse alla sua potenzialità, ma certe volte le potenzialità fanno paura alla comunica che lo deve ridefinire e redarguire.
Saremmo tutti migliori se avessimo più spazio per le idee e le sensazioni proprie e di tutti. Diversamente concepiremmo una dittatura, un partito politico o una setta, ma le sette apparentemente rendono sicuri e meno soli come la superstizione.
Posso essere io l’assoluto di me stesso ? O solo gli altri sono la verità da inseguire ? È condiviso che ognuno non può essere verità per se stesso, solo le famiglie, i gruppi sociali, il mondo avrebbero questo privilegio e sarebbero i nostri saggi, ed io invece un uomo piccolo uomo, un difetto, un non pensante, un deficiente ?
Quanta povertà non poter credere in se stessi, non poter uscire dall’ ombra, seguire la mandria, apparentemente rassicurante, ma in realtà, depersonalizza, col rinnegamento di se, si ammala chi si affida ai valori altrui, si adagia, forvia, è ossessionato, annega sé nelle ansie, sprofonda nel timore di sbagliare, di uscire dal range, non si muove mai, è inibito, frena sempre, va a singhiozzo, non parte, muore tre volte, prima dentro, invecchia, poi fuori.
È preferibile “errare”, aldilà dei canoni dei saggi, pur di avere in mano la propria vita, seguire il valore che si È, che il mondo vorrebbe gestire, censurandolo e schiacciandolo a se, nella consapevolezza che l’uomo, nella sua singolarità ed individualità è assoluto, ognuno è assoluto, se lasciato respirare.
giorgio burdi
ContinuaL’uomo è più potente del suo dolore e della morte
Che senso ha la sofferenza
L’uomo è più potente del dolore e della morte
Ogni volta che ci troviamo di fronte ad un qualsiasi dolore, veniamo chiamati a rinnovarci, attraverso la sua presenza, possiamo comprendere forzatamente o piacevolmente, che si sta prospettando la necessità di una nuova nascita.
Non siamo nati per soffrire, ma quando il dolore è presente, invita ad una evoluzione verso L’ equilibrio e la serenità, direziona verso un aiuto, una presenza super partes, verso una voce che ci accompagni mano nella mano.
Il dolore mentale o fisico si presenta come un parto verso un nuovo adattamento. È l’adattamento verso la nuova prospettiva che si impone, che strugge l’anima.
La sofferenza denota il bisogno di adoperarsi per una evoluzione che fa spavento. Tutto ciò che è nuovo, orientato verso la sua differente prospettiva, fa letteralmente paura.
Il più delle volte percepiamo solo tutta la veemenza del dolore che oscurantisce la prospettiva del cambiamento. Non lo capiamo, non lo sappiamo, ma quando soffriamo si esige un cambiamento.
Gli stessi sintomi rappresentano una ribellione ad una condizione e in quel momento il dolore rappresenta paradossalmente il nostro miglior amico che vorrebbe indicarci la strada e ciò che di fatto non va.
La sfida del sintomo è dover riconoscere da cosa esso viene generato per avviare una metamorfosi liberatoria rispetto alla situazione generatrice del sintomo.
Accertati che non ci siano cause di natura organica, se hai un dolore alla gola, domandati, quante parole non dici, soffocate a mezza lingua.
Gli acufeni denotano la presenza di pressioni emotive scaricate sui timpani, gli attacchi di panico che ti fanno temere la pazzia o la morte, denotano cosa davvero ti fa impazzire o ti fa morire nella vira quotidiana. La mancanza di autostima non rappresenta uno stato di deficienza personale, ma a quanti giudizi sul mio conto ho creduto.
La ricerca continua del senso della vita, il mal d’ esistere, denota che c’è molto che non da senso alla mia vita.
Comunque sia, il dolore non è nostro nemico ma al contrario un amico che incita verso una trasformazione di equilibri, verso la serenità e la felicità.
Ma, lì dove è complesso cambiare, cosa succede ? La sofferenza impone e propone l’ adattamento e la capacità di accettazione che acquieta e rigenera una nuova nuova forza di vita. Comunque sia,
l’ organismo è sempre reattivo, per adattamento, al miglioramento di se.
La prostrazione della sofferenza rende vulnerabili, spinge verso l’errore, spinge verso una dimensione comunque umana di differenti prospettive. L’ errore rappresenta la ribellione verso il dolore, è un confuso tentativo irrefrenabile verso una prospettiva di miglioramento.
L’errore rappresenta il partner del cambiamento, è un urlo di liberazione, senza sbagli non si cambia. D’ altronde il bisogno di liberazione, in una condizione di sofferenza che genera confusione, non sempre è progettabile, per quanto si cerchi di non sbagliare perché l’errore è sempre ripugnabile, ma esso è il puro ribelle del dolore, verso una evoluzione al di là dello stesso.
L’uomo è più potente del dolore, della morte perché comunque vada o comunque sia, per istinto di vita o di sopravvivenza, l’uomo si difende sempre, lotta e vive in trincea perché auspica sempre al desiderio di vita e di vittoria. Non molliamo mai.
giorgio burdi
ContinuaPER CONOSCERE SE STESSI bisogna tradurre i silenzi in parole
PER CONOSCERE SE STESSI
bisogna tradurre i silenzi in parole
Quando ci chiedono “ come stai ? “, molto spesso dinanzi ad una tale domanda rimaniamo attoniti, pensierosi. Come sto ? Boh, Spesso percepiamo gli estremi, il massimo del dolore o la gioia, per il mezzo non sappiamo rispondere, c’è quasi un vuoto di percezione.
Noi “stiamo” come stanno le nostre sensazioni ed emozioni, noi siamo le nostre stesse emozioni, esse sono caratterizzate da reazioni neuro fisiologiche potentissime, ma occulte e silenti, rappresentano la nostra intimità e raffinatezza. La sensibilità è il senso della nostra umanità, è saper leggere certe sottigliezze.
Abbiamo bisogno di imparare a scansionare di continuo le nostre reazioni veementi, discrete , silenziose emotive e percettive, per essere presenti all’interno della realtà in cui viviamo, per realizzare la massima consapevolezza di noi e del mondo che ci circonda.
Parliamo continuamente, in moto vorticoso, un linguaggio interiore silenzioso tutto da scoprire, al quale nessuna istituzione ci ha mai aperti o preparati, è dato per scontato, non si è creata la dovuta necessaria del conoscere se stessi a scuola.
A scuola studiamo da sempre gli oggetti del pensiero, la fisica la matematica, la letteratura ect, ect, ma non c’ è la materia “persona”, non è mai stata considerata un oggetto di studio il soggetto.
Conosciamo la giurisprudenza, la matematica, la medicina, la letteratura, ma noi no nella dimensione emotiva, dell’ anima, del pensiero sommerso, di tutti quegli atteggiamenti di affettività, di cattiveria che determinano le globali relazioni e le transazioni umane. Le relazioni umane e i loro interscambi risentono degli umori e delle emozioni soggettive.
Senza la conoscenza di noi, non saremmo abbastanza umani, saremmo solo dei puri tecnici, avremmo relazioni programmatiche e automatiche, materialistiche, superficiali, monotone, avremmo relazioni monologhe.
Spesso osserviamo un medico o un assistente sociale, un professore, privi di capacità relazionale umana ed empatia, un medico che cura il proprio paziente non può curarlo mantenendo le distanze da ciò che lo caratterizza, la sua natura umana.
L’ ipocondria e le malattie psicosomatiche infatti, hanno valenze emozionali e suggestive, come si potrebbe prescindere dall’ omettere le architetture emozionali ?
Leggere in noi significa leggere nel presente e nella nostra memoria.
Nella nostra genetica c’ è la storia di tutta l’umanità, abbiamo una catena elicoidale infinita di storie, in un filo invisibile di dna, conduttore generazionale. Esso ci collega alle radici della storia, essa è la catena trasportatrice, di memorie, di reazioni emotive, di paure, di vitalità, di atteggiamenti, sensazioni e comportamenti.
Nelle nostre generazioni ci sono i sintomi, le patologie, le funzionalità, depositate nei campi della nostra vita genetica. I terreni sui quali noi costruiamo, hanno radici neolitiche, paleontologiche e preistoriche.
Noi siamo la memoria del passato e contemporaneamente gli innovatori del divenire presente, siamo i depositari di una intelligenza storica e di un inconscio collettivo, siamo l’ acme dell’ evoluzione della specie e nella nostra specie e siamo passeggeri presenti col bagaglio del passato.
La congiunzione tra passato e presente avviene attraverso il concepimento, esso è il connubio della storia umana.
Curando noi, curiamo le nostre generazioni passate, e curando il nostro passato, ci curiamo nel presente. Noi stessi siamo gli evolutori del nostro futuro e delle generazioni in divenire. Conoscendoci e curandoci, facciamo dono delle nostre emancipazioni ai nostri figli e alle generazioni future, delle nostre conquiste. Il segreto dell’ evoluzione futura è nella cura e nella lettura di noi che ci emancipa.
giorgio burdi
ContinuaIL PROBLEMA È LA SOLUZIONE: istruzioni d’uso per curare le ossessioni.
IL PROBLEMA È LA SOLUZIONE.
L’ abbandono e l’ atrofia emotiva, generatori di ossessioni.
Una macchina perfetta, ecco come mi si poteva definire fino a qualche mese fa: sul lavoro prestazioni sempre al top, successi professionali, riconoscimento sociale, apprezzamento e stima da parte di amici e colleghi, forte senso del dovere, dedizione e abnegazione verso ogni tipo di responsabilità.
Apparentemente tutto impeccabile e gratificante, il giusto merito per tanto sforzo profuso e per il grande investimento fatto nel lasciare la mia città di origine dopo la laurea in ingegneria (conseguita ovviamente con il massimo dei voti) per accettare il meritato lavoro in una società prestigiosa nel campo di applicazione dei miei studi.
Avevo nel tempo orientato la mia vita verso questa direzione, facendo affermare involontariamente e forse inconsapevolmente quella parte di me logica e razionale a discapito di quell’essenza emotiva e istintiva che, per propria natura, è imperfetta, autonoma, libera da schemi e pregiudizi sociali. E tutto questo andava bene, mi sentivo bene, fino a quando realizzo di avere un problema.
Succede tutto sei mesi fa.
L’incontro con il mio fidanzato storico, con l’amore della mia vita, con colui che in passato avevo creduto sarebbe stato il padre dei miei figli, a distanza di diversi anni dalla rottura del nostro rapporto mi ha fatto fare i conti con un bilancio di vita personale che evidentemente non era così perfetto come inconsapevolmente mi convincevo che fosse.
La nostra storia (probabilmente tutti lo pensano della propria) era speciale: ci eravamo cercati negli anni, prima nell’adolescenza e poi da ragazzi adulti, ritrovati e riscoperti sorprendentemente ed eccezionalmente uguali a condividere la stessa idea di vita, ma purtroppo ci eravamo ‘dati per scontati’ e così i micro-obiettivi professionali che ci eravamo prefissati, e per i quali avevamo temporaneamente deciso di stare lontani, nel tempo ci avevano allontanato sempre più dal macro-obiettivo di stare insieme per sempre, la mancanza di condivisione di una quotidianità vera vissuta e di una prospettiva di vita insieme ci aveva portato a ferirci, odiarci, non facendoci ritrovare più, tanto ci eravamo fatti prendere dalle nostre vite separate che contemplavano un noi solo come rapporto a distanza, un noi nel presente, un noi senza futuro.
Quando mi ha lasciato ho patito le più grandi sofferenze della mia vita, e lui non faceva altro che alimentare il forte senso di colpa che mi portavo dentro per essere stata, apparentemente, l’elemento scatenante di quella rottura.
…Ma la vita per fortuna continua, con il mio ottimismo, la mia energia e l’affetto delle persone a me più care sono riuscita ad andare avanti, costruendo peró, un pezzettino dopo l’altro, una corazza invisibile che mi rendeva orgogliosamente immune al dolore per amore…
Qualche contatto avuto poi nel tempo con lui ci aveva fatto riscoprire più maturi, senza rancori e con i bei ricordi del passato sempre vivi, sebbene ormai con percorsi di vita distanti e forse divergenti, ma con la convinzione comunque che la nostra fosse stata una storia speciale.
Ma torniamo al nostro incontro di sei mesi fa: dopo uno scambio di messaggi buttati lì quasi per gioco decidiamo di trascorrere un paio di giorni insieme, così, senza aspettative, in virtù del grande affetto che ci lega, ‘per stare un po’ di tempo insieme e vedere come va.’
Be’, il nostro incontro ha riaperto in me sofferenze e ferite talmente sommerse e represse che fanno molto più male di quelle del passato, mi ha gettato nello sconforto, dal momento che, dopo giorni idilliaci in cui lui ha cominciato a rievocare le meraviglie del nostro rapporto, fa retromarcia e matura la saggia convinzione che tra noi non ci potrà mai più essere niente.
Ed io, che ero davvero partita per quei giorni senza aspettative, con un ‘vediamo come va’, ci sono cascata appieno, sottovalutando le mie debolezze e bastando quindi poco a farmi credere che un ‘noi’ potesse ancora esserci.
E così avviene l’ennesimo distacco dall’uomo che più ho amato nella mia vita. Nei giorni seguenti sono stata fermamente trattenuta dal cercarlo perché avevo lucidamente realizzato che
“non avrei sopportato un ulteriore distacco. E la paura di questo distacco, di qualsiasi forma di distacco, da persone e oggetti”,
comincia da lì ad avvinghiarsi a me, fa a pugni con la mia razionalità, prende il controllo della mia vita.
E così me ne torno a casa, logorata e sofferente, senza aria, disperata, e nella mia testa prende forma la consapevolezza che, dopo tutti questi anni di sacrifici ricompensati da eccezionali traguardi professionali raggiunti, mi ritrovo in una città che non è la mia, senza aver costruito una famiglia, attualmente senza tempo libero perché ‘incastrata’ in un lavoro super impegnativo che ha reso fertile il terreno affinché la mia emotività uscisse da questa vicenda distrutta.
E così la corazza stratificata nel tempo a causa delle delusioni e sconfitte del passato si è sgretolata in un attimo come un vaso di terracotta che, scivolandoci dalle mani, arriva al contatto con il suolo, da dentro è spuntata fuori una bambina indifesa, spaventata, una me che ha terribilmente paura di restare sola.
E allora, sopraffatta e ossessionata delle emozioni che avevo congelato per quasi dieci anni, decido, contro ogni mia passata diffidenza, di rivolgermi ad uno specialista che mi aiuti a decifrare – proprio a me che sono così brava a fare tutto e a dare saggi consigli agli altri… – il labirinto emotivo all’interno del quale non mi riesco più a districare.
E così accetto l’idea di aver bisogno anch’io di aiuto, di aver bisogno di un ‘decoder’ in carne ed ossa (lo dico con la massima stima verso il complicatissimo lavoro che il dottore sta facendo) che mi sta supportando nell’interpretare le ansie e paure che mi tormentano, ma soprattutto mi sta incoraggiando a espormi ed aprirmi ai sentimenti, anche se il mio io più profondo vede il rischio intrinseco, vede la possibilità di ulteriori sofferenze e ha difficoltà a lasciarsi andare verso una dimensione che da anni non è più la sua.
Dal confronto con i ragazzi incontrati in terapia di gruppo (anche lì dopo una prima fase di diffidenza verso una condivisione dei propri problemi) inizio a vedere sciogliersi il mio distacco verso gli altri, il pensiero assurdo che i problemi si devono superare esclusivamente con le proprie forze, apprezzo la genuinità e trasparenza dei ragazzi, tutti esposti a presentarsi per come sono, a tendere la mano, a non giudicare, ad aiutare anche senza volerlo.
Sto scrivendo tanto e di getto e mi rendo conto di non aver ancora chiarito che il mio obiettivo di questo percorso non è più riavvicinarmi al mio ex: ormai, se magicamente tornasse da me come il principe delle favole, non sarebbe quello che voglio e non mi renderebbe felice.
Dal nostro incontro in fondo si è attivato un meccanismo che, sebbene ora mi faccia stare male, sebbene io l’abbia visto e definito come ‘problema’, mi sta aiutando a mettere in ordine un po’ di cose, soprattutto a comprendere l’importanza di essere me stessa e non quello che gli altri vogliono che io sia: magari mi scoprirò un po’ meno perfetta, ma sarò felice di essere consapevole di me.
Stavolta almeno é cambiata la prospettiva, ho capito veramente che devo guardare in un’altra direzione che sia concentrata e sincera su di me.
E soprattutto, grazie alla terapia, ho compreso che la sofferenza e la paura dell’ abbandono, i sentimenti e le emozioni tutte, mascherate attraverso le ossessioni, vale a dire ciò che sei mesi fa mi sembravano il problema, di fatto sono la via verso la soluzione: sono comunque le mie emozioni che, per fortuna, esistono ancora e che mi fanno capire che non sono un robot e che c’è ancora spazio per amare, gioire, rischiare, sbagliare, vivere essendo libera di essere me stessa.
Quando recupero il tempo per me, colgo e lascio esistere l’ affetto profondo o meno, quando accolgo il mio “sentire” silente, i sintomi ossessivi non esistono più, come se non fossero mai esistiti.
C.
ContinuaESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
ESSERE CIÒ CHE VOGLIONO
Vita e relazioni senza veli.
Nasco e cresco da due genitori che hanno come principale fonte di gratificazione il proprio matrimonio e i propri figli, interpretati come protesi delle proprie mancanze e del proprio essere.
Per loro, l’ unica fonte di realizzazione dell’ essere uomo/donna è attraverso la metamorfosi in marito-padre/moglie-madre.
Il danno maggiore causato dalla mia famiglia “proletaria” è stato il proiettare sui propri figli le aspettative che i miei genitori sognavano per se stessi.
Raramente mi è stato chiesto e mai è stata presa in considerazione la risposta alle domande: Cosa desideri? Cosa ti piace? Cosa vorresti? Ero di loro.
Non ero una persona, ero un figlio.
Un dipendente, un sottomesso ai desideri, piaceri e volontà dei miei genitori.
Vivevo in una famiglia piuttosto isolata: i miei genitori avevano pochi amici e quei pochi condividevano le stesse politiche sociali. Non avendo altri esempi o figure di riferimento, i miei genitori erano riusciti nel processo di addomesticamento. Il mio vero se è stato stroncato sul nascere.
Ero il figlio che ogni genitore impreparato e insicuro sogna: disponibile, assertivo, empatico, studioso, anticipatore dei loro desideri. La mia priorità era assecondare le loro aspettative.
I problemi del figlio che non dava mai problemi, iniziano quando fui costretto a confrontarmi con uno spaccato del mondo reale: la scuola.
Il periodo scolastico fu pervaso da furiosi scontri in ambito familare, scolastico e amicale. Solo ora ho la consapevolezza di esserne stato io la causa. Io, come individuo inconsapevole, ho cercato e creato lo scontro perchè non riconoscevo le persone che mi circondavano come attori compatibili e approvabili a partecipare alla mia vita. Ero disorientato.
Il vivere in modo isolato, con pochi contatti con la realtà aveva creato in me un idea di mondo diversa da quella che era realmente.
Paragonando la società al mare, io ero convinto di vivere in un golfo, ma mi rendo conto che io fino ad allora avevo vissuto in un acquario.
Perse le mie scarse e precarie certezze, mi chiusi in un periodo di completo isolamento in cui ho tagliato fuori dalla mia vita chiunque e spesso anche me stesso. Nel periodo che ho dedicato alla riflessione (con gli strumenti che avevo a disposizione) ho riconsiderato quali sarebbero stati i miei nuovi untori di verità da idealizzare, ai quali sottomettermi:
i privilegiati del liceo che frequentavo.
Volevo essere uno di loro. Provenivano da famiglie benestanti, avevano bei vestiti, frequentavano bei luoghi, avevano sempre soldi in tasca, non pagavano le conseguenze dei loro errori.
Soprattutto “loro” avevano i propri genitori sempre dalla propria parte, i miei invece, avevano reverenza nei confronti di qualsivoglia autorità.
Avrei riciclato e rottamato senza titubanza i miei genitori arroganti ed impreparati con i loro che all’ apparenza risultavano perfetti. Iniziai con il mimetizzarmi tra i miei coetanei, nella speranza di essere integrato nel gruppo “loro”.
Le auto limitazioni alimentari per corrispondere ad uno dei “loro” comandamenti: magro uguale bello, si trasformano prima in digiuni e poi in abbuffate con rigurgito.
Il processo durò poco perchè semplicemente non ero uno di loro. Mi mancavano sia i soldi che i loro usi e costumi.
Avevo ancora una volta perso la mia identità.
Non ero una persona, ero ancora un figlio. Figlio non più dei miei genitori ma di una ideologia alla quale così come i miei genitori, anche a lei non importava nulla di cosa desiderassi, cosa mi piacesse, cosa volessi.
Ero dipendente dalla dipendenza: imprigionato nella coazione a ripetere:
Scuola, lavoro, relazioni, amicizie, ho cercato e/o creato i presupposti perchè qualcun altro mi desse le linee guida da seguire per essere un bravo dipendente.
Questo circuito è andato in corto quando non ho più avuto qualcuno o qualcosa che mi desse la possibilità di essere un bravo dipendente.
A questo punto ho deciso di rivolgermi allo psicoterapeuta Burdi che mi ha consigliato la terapia di gruppo.
Entrare in una terapia di gruppo è come entrare in una nuova realtà. Quella autentica.
Questo debutto in questa nuova realtà è stato contraddistinto dalla variazione delle mie priorità.
Il primato detenuto dalla conformazione ha ceduto il posto all’ autodeterminazione.
I membri cercano di raccontarsi per quello che sono. Senza maschere, senza patinature, senza veli.
Nella realtà social fatta di filtri instagram e Photoshop, confrontarsi con l’ autentico è raro.
Durante questo percorso ho avuto la possibilità di capire e scoprire i pensieri ed il modo vero di essere e di pensare dei miei “compagni di viaggio”.
Generalmente i sintomi del malessere sono differenti ma le cause sono comuni ai membri del gruppo: essere stati velati. Nel momento in cui si da un consiglio al prossimo su come curare il proprio sintomo, lo si sta dando a se stesso.
Questo percorso mi ha portato alla consapevolezza che non sono più un figlio, sono una persona.
guido
ContinuaLA TERAPIA MORDI E FUGGI
LA TERAPIA MORDI E FUGGI.
Curarsi fai da te, senza impegno
Vi racconto un episodio: l’altro giorno ero in pasticceria, una signora continuava a non rispondere al ragazzo che la pressava perché ordinasse.
Niente, nessuna risposta, era ipnotizzata da un tutorial: “Come farsi le torte a casa e non andare più in pasticceria”. Scherzi a parte, comprendiamo tutti che stiamo cadendo nel ridicolo.
C’è un tutorial per ogni cosa: come pettinare il gatto, togliere un chiodo, come suonare la chitarra elettrica senza corrente, come auto concepirsi, come farsi un figlio in provetta, allungarsi il fallo, come catturare un ratto o operarsi d’ appendicite e seppellirsi da soli, praticamente come bastare a se stessi, come farsi un tutorial e via discorrendo. Non c’è più studio che tenga, ci sono i tutorial per curarsi. Youtube e Dr. Google sono la nuova “specialistica” .
I nativi digitali non me ne vorranno, non voglio togliere nulla a questo originale modo di apprendere, ma sono convinto che il tutorial: “come vivere senza problemi” non lo posterà nessuno.
I problemi vanno affrontati, nell’immediato, perché affinano in noi, quell’esperienza necessaria per non rincontrarli. Qualche anno fa, divenne famosa, in Ucraina, una sorta di terapia d’urto che prometteva soluzioni, quasi miracolose, per le nevrosi di ogni genere.
Consisteva nel seppellire i pazienti, per qualche ora, in una cassa, sotto pochi metri di terra. I risultati erano a portata di mano! La paura della morte scacciava via quella della vita!
Nessuno, però, dopo, ci ha informato della durata dei risultati. Non sempre la terapia d’urto è totalmente risolutiva, moltissimi pazienti, dopo qualche tempo ripresentano sintomi uguali alla patologia di partenza, peggioravano o ne elaborano un’altra con diversi esordi, con una simile eziologia.
La psicologia psicoanalitica, fin dai suoi esordi, si è proposta come un “cammino”, un accompagnamento del soggetto dentro e verso se stesso, perché in esso, come diceva Pontalis (Finestre 2002): “torni il gusto di vivere e le cose trovino il proprio sapore, perché sull’ostilità, sul rifiuto predomini almeno ciò che un pittore innamorato dei colori chiamava cordialità per il reale”.
Una terapia, insomma, che generi un urto nella vita di chi vi si sottopone. Un urto continuo che lo spinga a spostarsi dal suo personale e avvilente status-quo.
Corpo contundente, in questo caso, diviene la “parola”. Un mosto che continuerà a fermentare nell’animo, anche a seduta terminata. Un dialogo avviato in seduta che non è possibile interrompere e che ci segue dappertutto, in ogni situazione e scava, rivanga, rimescola il terreno delle nostre ansie, e rintraccia le cause, dissotterrando tutto quello che può essere utile alla nostra risoluzione.
luca
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