Quando si ha la capacità di essere soli si è pronti ad una relazione
Bisogna innamorarsi quando si è pronti, non quando si è soli
Quando si ha la capacità di essere soli, si è pronti ad una relazione.
Si è pronti ad una relazione, paradossalmente, non solo quando si “sente” il sentimento o lo slancio emozionale, ma quando da esso si è liberi.
Ad una relazione si è pronti, quando della relazione non si ha “bisogno” , quando la relazione non dipende dal solo “assecondare”, dal solo entusiasmo occasionale frutto della sola adrenalina, ma dalla libertà dall’ ormone.L’ ormone dell’ entusiasmo, il più delle volte forviia , devia dall’ obiettività, in realtà in quei momenti avremmo più bisogno di noi stessi che di un altro.
Lo stato di solitudine rappresenta una condizione ed uno stato di bisogno, che non ti permette di guardare la persona in toto e al suo proprietario, e qualsiasi stato di bisogno deforma l’ obiettività e la gratificazione piena; la persona viene inconsciamente utilizzata come un mezzo, non come un fine, per godere e rispettando la bellezza del gusto della conoscenza profonda dell’ altro.
Ogni relazione sana, non nasce mai da colpi di fulmine; in questo modo non sarebbe mai sana una relazione adeguata, quando si è in affanno nel cercare la persona giusta o quella definitiva, ma sarebbe sano, solo se il soggetto interessato sa mettersi in gioco su una relazione relativa, tutta da scoprire e da costruire, ovvero se è in grado di vivere le micro situazioni emozionali nei suoi istanti, solo se è collegato a se stesso e sta bene ed è presente a se stesso. chi perde o svaluta le meraviglie di tale processo nel presente, pensando ad un perfezionismo di una storia che non c’è, rischia di attenderla invano per tutta una vita.
Ogni storia importante non può mai nascere nel criterio del definitivo, ma solo nel criterio costante del relativo. Chi vive nel relativo di una storia vive pienamente quella Storia, se pur per un brevissimo tempo, essa diviene intensa perché il soggetto è presente a se stesso, da concedersi la profondità di quegli istanti profondi in divenire.
l’ attesa di una storia definitiva, è l’ attesa del nulla, di un principe fiabesco che non c’è, sono solo le meraviglie del presente, quando accadono, e se si permettono il loro accadere, che andrebbero colte come perle preziose irripetibili. Realizzeremmo che quegli istanti superano le fiabe, e ciò accade solo perché siamo a noi presenti.
Chi è affannato nel ricercare l’ ideale, non vedrà mai, perché vede solo la sua ideazione. La persona presente vive, perché in tutti i suoi momenti relativi c’è, e gode delle sensazioni in essi presenti. Cercare il definitivo risulta essere una perdita di tempo e molto pericoloso, perché si rischia di non vivere mai. Vivere nel relativo, con tutti i suoi difetti, lascia esplodere la vitalità dell’ essere presenti e che potrebbe aprirsi, solo in questa prospettiva, ad un definitivo. Pertanto, un definitivo deve sempre nascere da una sequenza interminabile di relativi.
Si è pronti ad innamorarsi solo quando siamo presenti negli istanti relativi, ovvero quando non abbiamo più il bisogno di tutelarci dagli altri o di tutelare gli altri a noi, perché non più paurosi della solitudine da riempire o di ciò che non è definitivo.
Non si è mai pronti ad innamorarci, quando cerchiamo sempre certezze, sicurezze, definitivi, presenze fuori fuori di noi, spalle sicure, futuri, tutte frustrazioni di chi non sta bene con se stesso, bisognoso, bisognoso di appoggiarsi, di possedere, di ingelosirsi, di dipendere affettivamente, cone dipendere dalla propria solitudine.
La vita va vissuta per il nuovo, il bello, per tutto il diverso che non era stato previsto ed inquadrato, per tutto il relativo che si offre, se sei nell’ idea del relativo, sei profondo, cogli, se invece sei imperniato sull’ ideale del definitivo, perdi ogni cosa, ogni istante, la tua vita, se ne va, vacante.
Il bisogno di un altro è il bisogno di un feticcio, che rappresenta l’ attaccamento ad un particolare. Ma è inevitabile, saremmo tutti dei feticisti, perché quando chiediamo, perché lo ami, iniziamo a stilare una carrellata di caratteristiche feticistiche dell’ altro. Esattamente come se l’ altro fosse composto da un mosaico di tasselli e di pezzettini di caratteristiche tutte colorate che danno luce ai nostri bui.
Quelle caratteristiche rappresentano solo minimamente la rappresentazione di noi e dei nostri bisogni, sminuiscono noi e l’ altro, deformandoci sulla taglia nostra o su quella altrui.
Lo stato di solitudine richiamerebbe un processo compensativo atto a ricolmare dei vuoti esistenziali molto antichi o avrebbe un aspetto consolatorio per tutelarci dai mostri che affiorano durante le fasi di profonda solitudine
Il senso di solitudine nasce da quel processo di distacco da se e di attaccamento agli altri, alla madre originaria, la quale non avrebbe mai avuto il coraggio di lasciare la nostra mano o di non averla mai presa. La soluzione sta sempre nel giusto e il problema nell’ eccesso, ne troppo sale, ne troppo zucchero.
Il senso di solitudine è correlato al bisogno di avere sempre una madre o un padre DIALOGICO E CONTENITORE accanto. Hanno dato tutto, ma senza questi, il tutto diventa nullo, quasi mai esistito. Come si sostiene la paura e le incertezze dei temi di un adolescente che sente gli ormoni a palla, con una fiorentina a cottura media ?
Parimenti, il nostro senso di solitudine nasce, e viene indotto, da una madre non in grado di lasciarci andare, perché a sua volta bloccata in una storia di solitudine nei confronti di sua madre, resa assente dalla solitudine di una altrettanta madre sola. E’ evidente una questione generazionale.
la solitudine è l’ attaccamento all’ assenza della solitudine materna e non esclusa quella paterna, perpetuata e tramandata attraverso generazioni.
Il senso di solitudine, secondo questa accezione, viene generazionalmente ereditato dai propri avi e generato da processi di attaccamento, attivati dai meccanismi dell’ assenza, protratti lungo il tempo.
Il senso di solitudine allora è rappresentato dalla convivenza con un genitore presente, ma in realtà assente, a sua volta perduto nel vuoto del suo genitore presente assente .
La vera relazione nasce dunque dal superamento e dall’ accettazione, che diviene piacere, del senso della solitudine, ed è costituita dalla presenza di due solitudini accettate e condivise al punto tale che entrambi stanno bene anche da soli.
La vera Presenza è la coscienza di se e della propria gradita solitudine .Un’ autentica relazione nasce dall’ attaccamento non propriamente e solo all altro, ma dall’ attaccamento alla propria solitudine, quasi in modo morboso e geloso.
Bisogna che ci rendiamo capaci di essere soli, questo ci renderebbe PRESENTI a noi stessi e poi subito dopo agli altri in una relazione più dinamica e funzionale. Diversamente, creiamo i presupposti per rimanere nella solitudine dei due, se anche l’ altro non è mai stato in grado di incontrarsi e di capirsi.
Una relazione efficace nasce su queste attenzioni e presupposti, sulla base essenziale di non rinunciare mai ai presenti relativi , mai carichi di progettualità, ma intrisi di sensazioni e forti emozioni, esse soltanto rappresentano una corsia preferenziale verso la progettualità e l’ auto affermazione, verso un futuro assoluto.
Pertanto bisogna potersi vivere tutto, e tutto ciò che non necessariamente avrebbe senso e proiezione futura, ma tutto ciò che personalmente è carico di significati che abbiano il solo loro fascino nel presente relativo.
giorgio burdi
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