L’ ERRORE, È UNA EMOZIONE NEGATA
L’ ERRORE, È UNA EMOZIONE NEGATA
O urli l’emozione, o l’errore urlerà per te
L’ errore rappresenta il portavoce delle emozioni negate, inespresse, mute, mutate, tenute a bada, allontanate con la propria coscienza, vissute come fastidiose e ritenute imbarazzanti, rappresentative di un mondo vero ma inaccettabile. L’ errore è la rappresentazione e la negazione del giudizio sociale. Non esiste tregua per l’emozione, se predomina l’ etica, il moralismo, il giudizio sociale educativo.
Ciò che tradisce la socialità ed il moralismo, è l’ errore, che rappresenta la perdita del controllo, l’ emozione che non può essere tenuta, ne controllata dal controllo, essa è evacuativa, è fugace, è folle, è vera, autentica, parte da sola, è il magma della persona, è il suo sobbalzo, è l’ azione dentro che determina l’ unicità della scena del suo protagonista.
L’errore rappresenta l’ urlo liberatorio per una emozione imprigionata, è la liberazione dalle catene dei condizionamenti dei giudizi sociali, il diritto alla libertà di esistere in quanto diversi da chiunque. È l’ emozione che fa la differenza è ci diversifica ed è per questo temuta perché in un confronto con gli altri ci rende diversi ed incerti, bisognosi di consenso. Accettare di manifestarsi così come si è, senza il consenso altrui, ci fa sentire errati, ma potenti qualora ne recuperassimo la sua unicità emozionale, tale da non chiedere alcun consenso. Una forte personalità non chiede il consenso per far esistere le proprie emozioni, ma lascia vivere se. Noi erriamo, per esistere.
L’errore è l’ urlo e la rivendicazione dell’ emozione trattenuta, frenata ed implosa, che detona verso l’ errore. L’ errore è l’ esplosione dell’ emozione negata.
Esso è la detonazione del non detto e del non vissuto. Il sintomo è un dolore da malfunzionamento, un errore che esprime una verità negata. Sia l’errore che il sintomo rappresentano l’ invito di cambiare direzione, di accedere alla strada sterrata mai percorsa della novità emozionale. Ogni emozione richiede un fuori strada, una elasticità tale da poter rispondere alle novità della vita, in modo assolutamente nuovo e congruo.
L’ emozione è irrefrenabile, scalpita , nitrisce, strattona, ringhia, avanza come una slavina, muove quantità enormi di energia, è rapace, delicata, dolcissima, disgustosa, odiosa, sofferta, gioiosa. È incontenibile come il pianto di un bambino, come l’ urlo per un lutto e la felicità incontenibile per la propria laurea, per la propria sposa. L’ emozione si fionda ed oltrepassa il confine dall’ anima, si fionda verso la condivisione, verso il mondo e la relazione, ha sempre un carattere Relazionale, nasce dalle relazioni e torna verso di essa. La sua frenata determina l’ errore. Trattenere il trotto è commettere un incidente.
L’ errore, è il tradimento del non espresso, è il numero uno, che per svincolarsi, diventa matto, compie follie, è la ribellione verso il proibito, è la logica che resta tradita e crepata dall’ impulso.
L’errore nasce dalla mancanza di ascolto di se, dalla trascuratezza verso se, è uno yes man, che ascolta e si prodiga per chiunque, si consuma perché gli tornino i consensi, lo yes man risiede alla fine della lista delle sue priorità, non esiste fintanto che gli altri non lo fanno esistere con i loro consensi, fintanto da continuare ad errare, da accumulare, sbagli su sbagli, tali da derealizzarsi e depersobalizzarsi da non percepire più se stesso da.
L’emozione è la verità del nostro vissuto, è la quadratura del cerchio, è quell’ indicibile assurdo di essere espresso, è l’impossibile che può diventare possibile, è la malattia curabile, la scomparsa di un sintomo prepotente, è il buio che diventa sole è l’ imprevisto che diviene prevedibile, non esiste l’ emozione con la falsità.
L’ emozione è l’ urlo potente di una vita muta, è la rottura dell’ omertà, è la vita che chiacchiera continuamente dentro e non esce mai, che litiga con il lecito, il senso comune e l’ idiozia, con il senso di colpa, il perfezionismo e la ragione. Questa è la guerra dentro, è la guerra dell’ uomo scisso, incapace di mettersi d’accordo con se stesso, artefice di ogni guerra fuori.
L’ errore è il numero uno, perché spiana e raddrizza la via, scardina e toglie i massi delle emozioni sedimentate, incistite rimosse e rancorose. Esso è il preludio del miglioramento, è la tappa necessaria per avviare l’ evoluzione, dopo una sequenza interminabile. Non può esistere alcun miglioramento se non attraverso fallimenti ed errori ripetitivi. Il sintomo, il dolore, è un numero uno che disperato piange perché, il direttorio centrale delle sue alte sfere illuministiche della ragion pura, non ascolta, sua altezza emotiva dai colori sgargianti ed esuberanti, ingestibili negli impulsi, perché la vita è lì, ed è più potente da non poter essere facilmente imbrigliata.
L’emozione è ciò che fa la differenza, è follia, è contorta; è perdita del controllo; la ragione è noia e consuetudine, è nota, vita retta, La ragione è il numero due, è controllo, inquadramento, linearità. La ragione frena, inibisce è la causa di tutte le disfunzioni personali, può solo essere progettuale, ingegneristica, mai personologica.
L’ errore, il sintomo, il dolore, l’emozione, sono imprevedibili, spregiudicati, maleducati, trasgressivi, ingarbugliati, tornanti, irrispettosi, perversi, ribelli, sono dossi, montagne russe, essi se ne fottono, perché esistono e basta senza alcun permesso, spiazzano, rappresentano il direttorio della più elevata ed autentica vitalità, sono il nostro numero uno, rivelatrici di verità.
L’ errore non è mai un errore, perché è la rivendicazione della frattura mentecorpo, l’ errore si ribella alla scissione, al dualismo, alla separazione tra i due emisferi, rappresenta il corpo calloso che li tiene insieme; l’ errore pretende il dialogo tra destra e sinistra, sopra e sotto, dentro e fuori, contenuto e contenitore, esso è la moderazione e la mediazione tra due continenti complementari.
L’ errore ama la pace e la libertà, quando lo incontri è in atto un processo di crisi che brama la soluzione e l’ armistizio.
L’ errore indica il bisogno di fare pace con se stessi . Indica il bisogno di mettersi in discussione e di mettersi d’accordo .
Se nascondi l’emozione, nascondi la verità e sbagli, l’ errore ti toglie la maschera, ti sbatte in faccia la realtà tale che non puoi più nasconderla. È la crepa in una roccia che manda a valle tutto ciò che è vacuo ed effimero, retto da impalcature di sabbia dipinte di cemento.
giorgio burdi
Continuapiccoli putin
- piccoli putin
Dedicato a chi rende la vita impossibile
Siamo costernati da piccoli putin, si presentano inizialmente come uomini discreti, carini, gentili, comprensivi, compassionevoli, vittime sacrificali, ma la verità è tutt’altra, le vere vittime sono i carnefici da loro descritti;
i piccoli Putin, appaiono deboli, fragili, deperiti, empatici , buoni, sottomessi, lamentosi, ipocondriaci, vestono bene, poco dismessi, , sanno anche dire, ti voglio bene, ma sono delle maschere, perché di forza ne hanno da vendere, anzi sono in salute, possiedono aculei, spine prepotenti, laureati in saccenza e in persecuzione, lucidi negli obiettivi, apparentemente in ansia, meditano ore al giorno come zen, per placare le fiamme dei loro inferi.
Non vedono il bene, l’ amore, la buona fede o la compassione, dimenticano in fretta il conforto, la dedizione e i sostegni ricevuti, sono glaciali, cere da museo, sagome inespresse di cartone, vanno d’accordo, come degli zombi, coi loro simili, posseggono lo sguardo fisso, perduto nel vuoto, putridi delle loro piaghe, piagnucolano, si lamentano come commedianti. ma in realtà sono sconcertanti mister hide, uomini di carta vetrata, fastidiosi, raschiosi, sopra la loro pelle liscia trovi la raspa della corrente elettrica della loro irrequietezza, uomini alla ricerca, del loro scoop, del loro talk e reality show, di passare alla storia con la propria meschinità.
Appaiono delicati, curati come delle statue di travertino, con facce di bronzo e di pietra tosta, non hanno cedimenti nel volto, nessun filo d’emozione, freddi e pretenziosi, tiranni, despoti severi, dittatori che lamentano ingiustizia, indossano il baratro dei loro peccati che non vedono, non hanno sensi di colpa, si auto commiserano e si auto assolvono, appaiono pudìci, eunuchi, bigotti, bizzoche moraliste, angeli asessuati, ma in realtà sono angeli del male, insolenti spregiudicati, delinquenti, dietro la loro maschera c’è l’ inganno dell’ ignoranza e la freddezza della fucilazione, hanno il sogno mitomane di diventare qualcuno, di celebrare un nuovo giorno della memoria, senza mai sfogliare una pagina, perché loro, “hanno letto”, si emancipano attraverso Dr. Google, le serie di Netflix per una cultura del giallo, del crimine e delle armi. L’ ignoranza può anche diventare saggezza attraverso l’ umiltà, ma se si pone come saccenza, si fa deficienza.
I piccoli putin sono eternamente in guerra, perché hanno la guerra dentro, vivono nella paura di essere invasi, vedono il demone dappertutto, lo specchio della possessione che è dentro di loro.
Sono pericolosi, diabolici, votati al martirio del male, non cambiano, sono da evitare come il dirupo che è dentro di loro;
Autentici criminals minds, cinici, passano la vita nelle loro macerie a progettare terremoti; hanno l’ anima del fanatico omicida, pronti ad agire indisturbati quando meno te lo aspetti.
I piccoli Putin sono figli dei loro traumi, figli indesiderati, orfani di genitori viventi, addestrati in poligoni di morte.
Sono mercenari, ti usano, ti sfruttano, ti comprano con affetto, ti regalo cuori di pietra e Caffarel avvelenati e ti scaricano nello squallore di uno sciacquone se diventano vittime di proiezioni personali.
Servirebbe un esercito di psicoterapeuti e di assistenti sociali per sradicare loro i figli e la loro potestà genitoriale, per evitare il proliferare di criminali di nuova generazione.
I piccoli putin sono insicuri esoterici, superstiziosi ignoranti, cartomanti, streghe, maghi e fattucchieri, servono tso e rituali di esorcismo, per strattonare il loro male verso il bene, perché non c’è modo di dialogo, di civile comprensione o di accordo umano intelligente, perché non ci inganniamo di poter sperare di trovare l’ umano, lì dove risiede la bestia, c’è chi nasce per le barbarie; servono cecchini e sicari che puntino sul vuoto del loro esistere, sull’ anti umanesimo, sul nulla che li rappresentano.
Speculatori, ladri e padroni del tuo tempo, fastidiosi invadenti, non si fanno alcun rimorso nel disturbarti, usurpano risorse, come delle carogne, sulla base della benevolenza di ingenui sprovveduti in buona fede, che a differenza loro, vedono il bene dappertutto.
I piccoli putin, bruciano i libri, leggono paperone de Paperoni, guardano l’ horror, che possiedono, aspirano a diventare personaggio pubblico, dimenticano che hanno il tempo contato, ingordi, invidiosi, di chi ha consumato la rètina sui libri, di chi lavori, di chi si spacca; è un’ onta, è una vergogna l’arroganza dell ignoranza; essere strozzini rende, invasori e sciacalli usurpatori, avari e austeri nei sentimenti, ciechi verso l’ umanità, l’ amicizia e l’ affetto, facili a sbattarti in black list, lo paghi caro l’ alibi della loro diffidenza.
I piccoli putin, sono delle scimmie che imitano i ladri, le pecore, clementi con i demoni, ma angusti con gli umani ed i civili, ma la rabbia per la loro violenta ingratitudine, fa la resistenza, li rende partigiani, soldati spietati, perché la difesa della propria dignità, supera il sacrificio della propria esistenza.
I piccoli putin, tramano contro la serenità, contro la vita, sono disturbatori cronici, un cinico omuncolo sadico o una donnina pudica e mercenaria che si vende la dignità per soldi, ti aspetta al varco nella sua trappola, è l’ ombra della sua follia che merita il crematorio.
Chi minaccia la vita, dovrebbe soccombere con i propri figli della morte, inevitabilmente educati all’ inganno, all’ ignoranza del furto, del facile denaro, mascherati da onesti, ma ladri, mentecatti ed accattoni.
Alla loro apparizione e al loro passaggi bisognerebbe sprigionare una rabbia deflagratoria, un odio verso chi nasce per il male e per la morte. Non ci sono riformatori, ne processi rieducativi per chi è votato al male, e fa di esso il suo programma, andrebbero internati nei gironi danteschi infernali, ma terreni, noi non aspettiamo il giudizio universale, lasciandoli latitanti, ma la desideriamo loro morte subito, la vita va migliorata adesso, dobbiamo smetterla di sperarla, la pretendiamo.
Con i piccoli putin, la diplomazia è criminale, è una esplicita forma di timore, è aver paura e mostrare il fianco, è voler dialogare con un criminale che non vuol mettersi a tavolino. La diplomazia è il riconoscimento della violenza, perché essa è pur sempre delicata, comprende, magari condivide, alle volte lo tratta come un diversamente abile, come un pazzo o come un bambino irrequieto, stai calmo e fa il bravo, mettiamoci d’accordo su come dividere i giocattoli. La diplomazia è cieca, non vede il problema, produce morti, mentre vuole persuadere ad essere buoni, umani e umili come noi. La diplomazia è melensa, la sua esistenza da quasi valore al criminale, non riporta i morti in vita è un perditempo, l’ aristocrazia del perbenismo, un lava faccia, una strafottenza della vita, un aiuto umanitario estetico, è il lifting della solidarietà, è un politico che ti dice sempre di si, mentre non puoi più mangiare, la diplomazia può essere pericolosa, una presa per il culo. Non può esserci alcun dialogo con chi ha un programma di morte e la morte deve cercare e coincidere con se stessa, va uccisa. Per i piccoli putìn servono interventi tempestivi, squadre d’assalto, cecchini, fatti fuori a vista, perché non c’è alcun crimine sparando sulla morte e nell’ esercitare la legittima difesa. Altro che dialogo, esso fomenta ed agevola il processo di morte.
Sono traditori ben pensanti, tradiscono ripetutamente, cambiano i numeri e si auto assolvono. Devono fare attenzione ai propri passi per evitare il loro inferno, camminano su mine vaganti. La consapevolezza d’aver fatto loro solo ed inequivocabilmente del bene, oscuro alle tenebre che sono, non lascia passare un giorno, un solo istante, in cui gli si auguri a mitraglia, la più elevata esecrazione, malattie, anatemi, fatture, riti tribali e satanici e di passare quanto prima e per sempre a vita migliore; in attesa della battaglia, per vendere cara e degna la propria pelle, perché i demoni non meritano l’ esistenza, fintanto che la loro consapevolezza non li illumini da formulare le dovute scuse e i perdoni, la maledizione rimarrà eterna.
giorgio burdi
ContinuaLA SOSTANZA AFFETTIVA
LA SOSTANZA AFFETTIVA
Breve compendio sulle dipendenze
Tra le sostanze psicotrope più diffuse che creano maggior dipendenza organica ed emotiva, tra le più complesse da trattare in termini di tempi di psicoterapia, secondo una scala di difficoltà di trattamento, abbiamo al primo posto l’ eroina, a seguire, il crack, l’ alcool, la cocaina e in fondo alla scala la cannabis.
Esse richiedono un periodo di trattamento di psicoterapia mediamente lungo e statisticamente pari a tre anni per la prima, due per il crack e l’ alcool, un anno per la cocaina e per la cannabis; per tutte queste dipendenze il lavoro di psicoterapia deve essere condotto con continuità e senza interruzioni.
La dipendenza affettiva, risulta essere la più radicata e la più complessa da trattare, si pone al primo posto per il suo livello di difficoltà di trattamento e esattamente si pone prima dell’ eroina; per questo la definiremo, sostanza affettiva; essa infatti affonda le sue radici causali più profonde all’ interno della relazione parentale e si comporta come una vera e propria sostanza che viene assunta per gratificare quei sistemi di ricompensa mancati nella relazione affettiva originaria.
La dipendenza affettiva ha tutt’ altro che una dimensione razionale, essa va di gran lunga oltre quei processi del pensiero ed è complessa nel riconoscimento delle sue cause;
la sostanza affettiva risiede in meccanismi inconsci ed ombrosi, all’ interno di sfumature antiche, attentive ed affettive compromesse della famiglia.
La gamma dei sintomi determinati dalla sostanza affettiva sono numerosi e comprendono: fobie generalizzate, frustrazione per l’ assenza della figura affettiva, percezione del vuoto emotivo e sensazione di smarrimento, paura per la solitudine e per gli abbandoni, timore intermittente di perdere l’ oggetto amato, timore di essere rifiutato e il bisogno di rassicurazioni continue.
La dipendenza affettiva si confonde con l’ amore, ed è cosa molto diversa dall’ amore; la prima è caratterizzata dalla presenza evidente di un litigio continuativo, è conflittuale ed insostenibile;
i partners sono orientati prevalentemente nell’ imporre i propri bisogni in modalità ossessivo e manipolativa, dove il dipendente, il più delle volte, è sottomesso.
La dipendenza nasce dall’ accanimento di voler soddisfare i bisogni frustrati di un tempo. Voler soddisfare un bisogno determina il gap di non considerare mai, e non aver in mente, la persona interlocutrice, riscoperta in seguito come incongruente ed ingannatrice, solo dopo avere soddisfatto il bisogno.
L’ amore non è mai dipendenza affettiva, al contrario è un’ opera d’ arte che va contemplata per la sua poesia e la sua delicatezza, è gratuità di sentimenti, è autonomia dell’ uno verso l’ altro, è attesa, non coercizione o cospirazione, è paziente, comprensiva, guarda alla persona, non al progetto, esso viene tanto dopo, è orientato non al bisogno da soddisfare,ha stima, fascino per l’ altro, non fa contratti, compromessi, ne ricatti, non ha obblighi, è rispettoso e discreto, desidera, è passionale e compassionevole, dialoga ininterrottamente, si incanta, non litiga sempre, non comanda, non è mai direttorio, è umile, impara, ma, non insegna o conosce saccenza, non si erge, o si piega, copre, promuove, è protettivo, non usa imperativi, è stupito, è riparativo e devoto, sa chiedere scusa, è in preghiera per la meraviglia e se discute ne apprezza le differenze per evolversi.
La sostanza affettiva è una sabbia mobile che non ti permette mai lo slancio, le emozioni del bello, decreta la fine già dall’ inizio; procrastina, per la chiarezza torbida dell’ obiettività, è quel bisogno che rende cieca l’ oggettività; la sostanza affettiva proclama la fine di se e delle proprie risorse, tira fuori il peggio di se, da credere di non essere mai stati migliori; condanna alla prigionia dell’ altro, a sentirsi ripetutamente sbagliati ed errati; fa arrampicare sugli specchi dell’ impossibile e della malattia.
Ma come si struttura e da cosa nasce la dipendenza affettiva come una sostanza ? Le dipendenze da sostanze psicotrope hanno delle origini più ravvicinate di quelle affettive. Diciamo subito che le dipendenze in generale, si innescano all’ interno di quei circuiti dopaminergici, relativi ai meccanismi della ricompensa.
I bassi o I mancati stimoli delle ricompense affettive ambientali, inducono una ricerca esterna di stimoli compensativi surrogati, coadiuvanti e suppletivi, che creano ad essi la dipendenza. La sostanza affettiva rappresenta una sostanza di rimborso delle carenze attentive non soddisfatte.
Il nostro cervello necessita di produrre la dopamina, che è l’ ormone della gratificazione, attraverso stimoli specifici ambientali consoni. In assenza di tali stimoli ambientali affettivi specifici, il sistema adrenergico, si rifà sui sostituti “surrogati” dell’ ambiente, sostituendo lucciole a lanterne come mezzo di auto sopravvivenza.
Cosa manca ad un soggetto che soffre di dipendenza ? “LA PRESENZA”. Riempirà il malessere delle assenze, con la presenza e le premure di uno qualunque approssimativo surrogato, attraverso il contatto rassicurante di una comparsa o attraverso l’ euforia della cocaina, o tramite la parola di un ammalato di vuoti come lui, o attraverso l’ alcol, o attraverso la fame del come stai o attraverso la ludopatia per i giochi dell’ infanzia mai condivisi.
L’ assenza, genera il timore e la paura per la solitudine, per tutte le crisi abbandoniche subite. Una delle origini della dipendenza affettiva è la storia e il susseguirsi degli abbandoni subiti. Una relazione più è frustrante, più alto è l’ indice di insinuazione di una dipendenza, più si presentano stati paranoici e persecutori.
Attraverso i processi abbandonici, il dipendente sarà alla ricerca estenuante di un suo accuditore dedito e devoto, di un “badante”, di un infermiere che lo curi e lo ami, come quella cannabis che lo fa cedere accasciato tra le proprie braccia. La Dipendenza affettiva si equivale a tutte quelle crisi abbandoniche subite.
Un genitore, con le sue assenze e i suoi abbandoni, respinge il proprio figlio, si percepisce indesiderato, ma allo stesso tempo lo lega, lo vincola tra le mura domestiche, lo rende socio fobico, bloccato al suo utero, all’ interno di una relazione asfissiante e trasparente, lo lega nell’ attesa che arrivi prima o poi quell’ attenzione, uno slancio o un abbraccio, uno scorcio di sorriso, di una rassicurazione, o di un come stai.
La motrice primaria per liberarsi dalla dipendenza affettiva risiede innanzitutto:
1 nella consapevolezza di essere un dipendente affettivo,
2 nella comprensione dei meccanismi che lo legittimano ad un tale meccanismo patologico,
3 e nell’ investire energicamente su di se , su quegl’ interessi che stravolgono la propria esistenza che si definiscono attitudini.
giorgio burdi
ContinuaABBRACCIARE GLI SPETTRI
Da “ Se incontri il Buddha per strada, uccidilo “ di Sheldon Kopp.
Se incontri uno spettro per la strada, abbraccialo
Ogni uomo è tormentato dallo spettro di un gemello che rappresenta tutto ciò di sé stesso a cui direbbe “no” (Sheldon Kopp).
È un’ombra svelta e meschina che viene a disturbarci lungo il cammino. Un brigante. In pochi secondi, vediamo tutto il lavoro impiegato per trovare la pace dei sensi e la felicità svanire.
Crisi.
Evidentemente ci è sfuggito qualcosa, non abbiamo capito fino in fondo la nostra vita. La strada che con tanta fatica ci siamo costruiti è sbagliata. È una strada che porta verso il caos, l’incertezza…non va bene.
Che confusione! Eppure, una chiave ci deve essere, deve esistere un modo per cambiare come siamo. È diventato insopportabile vivere così. Non è possibile camminare su una strada così fallibile, incerta e solitaria.
È in questo momento che iniziamo a trovare mille possibilisoluzioni al nostro problema. Un problema che ci fa sentire in difetto, guasti. È da quel momento che potremmo vedere negli altri, “più risolti ed equilibrati”, la soluzione. Può essere un familiare, un amico, lo psicoterapeuta.
Automaticamente, la persona che noi riteniamo abbia ricevuto il dono dell’illuminazione diventa centrale per la nostra vita. Finalmente, nel nostro cammino, abbiamo incrociato il Buddha: ci siamo quasi.
Quello che accade, in realtà, è che stiamo idealizzando. Quando idealizziamo qualcuno (o qualcosa) stiamo proiettando il nostro bisogno di trovare una soluzione. Un chiave che apre (e quindi chiude) tutte le porte della nostra mente.
La proiezione è efficace soprattutto perché siamo noi, in primis, a credere di poter raggiungere la “perfezione”. Siamo convinti di far parte di una specie animale di norma pura e onnipotente. È un’idea bellissima che ci fa continuare a credere di poter un giorno essere invulnerabili ai problemi della vita. La seconda convinzione è quella di poter raggiungere lo stato di “persona giusta” attingendo da forze esterne a noi.
Il fatto è questo: non c’è soluzione, perché non esiste il problema. Non siamo una specie interamente buona o interamente cattiva. Noi, essere umani, siamo animali. Abbiamo istinti e parti irrazionali. Non siamo delle divinità, siamo carne e ossa. Abbiamo il dono dell’amore, ma anche il suo gemello complementare: l’odio. Non possiamo fare miracoli, non possiamo eliminare le emozioni negative e, soprattutto, nessun essere umano è capace di controllare e salvare nessuno. Non abbiamo questo potere, non possiamo controllare gli altri e gli eventi. In effetti, la strada che percorriamo è fragile, caotica e solitaria… è così per tutti!
Lungo la strada, come tutti gli altri, devo sopportare i miei fardelli. Ma non intendo sopportarli graziosamente, né in silenzio. Prenderò la mia tristezza e per quanto posso la canterò. In questo modo, quando gli altri sentiranno la mia canzone, forse le faranno eco e risponderanno dal profondo dei loro stessi sentimenti(Sheldon B. Kopp).
I nostri spettri vanno amati perché ci ricordano di essere umani. E in quanto animali, siamo nel posto giusto. I nostri piedi sono adatti per poggiarsi per terra e camminare. Non siamo né interamente buoni, né interamente cattivi; siamo naturali.
Se ci ricordiamo di essere fallibili, impariamo a perdonarci. Se ci ricordiamo di essere incerti, impariamo a lasciar perdere il futuro, non possiamo controllarlo, e a vivere nel presente. Se ci ricordiamo di essere soli, capiamo di essere noi i veri padroni di noi stessi.
E quante lacrime e quanta tristezza ci furono ancora quando giunse a capire che la parte che voleva, in realtà, era sua, se la chiedeva, e lo era sempre stata!
(Sheldon B. Kopp, Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo)
Susanna García Rubí
ContinuaOGNUNO SI SCHIANTA SUI BUI ALTRUI
Ognuno si schianta nei bui altrui
Quando parliamo di “schianto”, inevitabilmente, ci viene in mente uno scontro automobilistico in cui l’impatto improvviso è dato dall’assenza di misure di sicurezza.
Nelle relazioni non esiste un dispositivo o una spia che ci avverte quando siamo di fronte ad un pericolo, ma siamo in grado di percepire ciò che ci fa stare bene o male, attraverso la nostra percezione, i segnali inviati dal corpo, o ancora la nostra vocina interiore. Ma cosa porta ad uno schianto?
La proiezione è il meccanismo più frequente. I desideri, la voglia di un rapporto, gli stessi schemi mentali, le nostre fragilità irrisolte, vengono proiettate sulla realtà che viviamo. Un po’ come fossimo al cinema, vediamo un film creato da noi stessi che non ci permette di capire con obiettività ciò davanti cui ci troviamo.
Tutto diventa edulcorato, mediante un’interpretazione senza filtri. Esci, due chiacchiere, uno scherzo e si sta bene.. e in alcuni momenti, male.
Cosicchè d’improvviso ci troviamo in un luogo sperduto e senza via d’uscita. Il buio dell’altro.
L’altro, colui che non vediamo, problematico quanto basta, accartocciato su se stesso, intriso nei suoi dolori, crocevia di pensieri intrusivi e sensi di colpa, ruba le nostre energie,portandoci a soddisfare una richiesta continua di amore di cui noi non siamo i diretti responsabili.
Persistiamo, perché ce la possiamo fare. Ignoriamo il nostro sentore e deturpiamo l’unica opera originale, la nostra, per rincorrere incessantemente quel sentimento che crediamo essere unico e dal quale non ci accorgiamo essere intrappolati o giàdipendenti.
La nostra vitalità svanisce, la pulsione di vita va in detumescenza. Il vuoto dell’altro diventa l’oggetto d’amore condiviso a caro prezzo. Abbiamo perso la bussola della nostra vita.
Meglio ancora quando mettiamo in atto un comportamentoossessiva in cui riteniamo che l’altro possa cambiare.. e ci chiediamo senza sosta cosa poter fare. Nulla. L’unica soluzione valida: il nulla, meglio, lasciarlo nel suo vuoto.
L’altro non cambia se non è lui a volerlo. La peggiore delle consapevolezze. Il momento in cui effettivamente percepiamo si esserci schiantati.
Non rimane che una profonda tristezza, alienazione, cadiamo in una valle di lacrime, parole delle nostre più accese speranze e illusi rimaniamo attoniti in uno stato di confusionale, nel tentativo di dare una spiegazione a ciò che è stato.
Quel film che stavamo vedendo si spegne davanti ai nostri occhi e la sala diventa buia. Non rimane più nulla, sedie vuote. Anzi, qualcosa ancora sosta ed è dentro di noi.. Quella vocina che non abbiamo mai ascoltato, balza alla nostra mente e quei sintomi di malessere hanno modo di trovare una spiegazione.
Nel finale, un pensiero, “ tutto dipende da noi, relativamente”.
silvia V.
ContinuaI GIRASOLI
I Girasoli di Van Ghogh
Questi fiori avevano un significato speciale per Van Gogh. Il giallo, per l’artista, era un simbolo della felicità. Inoltre, nella letteratura olandese, il girasole è un emblema ricorrente di devozione e fedeltà. Nei loro vari stadi di crescita, fioritura e sfioritura, i girasoli ci ricordano anche il ciclo della vita e della morte.
ASCOLTARE SE STESSI. IL PRIMO PASSO VERSO LA LUCE
Quante volte ci sarà capitato, dopo aver raccontato a qualcuno di qualche ingiusto “attacco” subìto o come tale vissuto, di sentirci dire: “lasciati scivolare tutto addosso, devi imparare a creare un muro dentro te stessa”.
Magari questa è una grande verità però è un obiettivo assai difficile da raggiungere e quel muro spesso lo si vede, in effetti,ma fuori, tanto da sbatterci contro.
Personalmente mi è capitato ma qualcosa di prezioso negli anni è cambiato!
Credo che il primo obiettivo di ciascuno di noi debba essere uno ed uno solo: ascoltarsi dentro, imparare ad ascoltare se stessi.
Dovremmo fare questo esercizio tutti i giorni magari armandoci di un taccuino ed annotando le cose che nell’arco della giornata ci creano malessere ma, ancor più, non fingere con noi stessi che tutto vada bene ignorando ciò che ci viene detto dal nostro mondo interiore a chiare lettere se solo fossimo avvezzi a cogliere ed interpretare quei segnali. Siamo tutti maestri nel tacitare il nostro dolore e ciò per le più svariate ragioni.
Il nostro registro interiore, per fortuna, capta immediatamente e memorizza ciò che ci sta facendo del male e crea un archivio che spesso, senza volere, noi, anche in maniera “involontaria”sotterriamo perchè c’è sempre una parte di noi che dice: “stai calma/o aspetta, prudenza, magari non è il momento di intervenire, di reagire, magari capirà che sta sbagliando…..magari….magari…..magari”.
Il vero problema è che questa strategia, nel tempo, può diventare pericolosa poiché quell’ archivio, quella memoria va in autogestione e gli eventi scatenanti si affastellano secondo un criterio che sfugge alla nostra razionalità e persino al nostro controllo.
Il suggerimento interiore dell’attesa non è di per sé un male a condizione che non si tramuti in un meccanismo di apparente autodifesa che si traduca in un accumulatore seriale di rabbia.
Posso dire oggi, senza tema di smentita, che di tutte le cose che ho studiato nella vita, quella che sono certa richieda uno studio eterno e sempre approfondito sia la ricerca del proprio equilibrio interiore e di ciò che ci garantisce il benessere.
Il tentare di “farsi scivolare addosso” le cose, quando i tempi non sono maturi per questo, può tradursi in una sofferenza inaudita ancor più in una società, come quella attuale, connotata da un gran numero di vigliacchi a piede libero.
Il vigliacco è una categoria umana interessante, e ciascuno a suo modo, nel suo piccolo lo è.
La vigliaccheria si manifesta anche nel semplice tacitare, nascondere, sotterrare le cose che ci fanno soffrire al fine di dilatare e differire i tempi per la conquista delle forze e la maturazione della presa di posizione così da approntarsi alla guerra. E sì, perché quando occorre cambiare le antiche e croniche dinamiche, quelle contraddistinte dalle cattive consuetudini da altri imposte e da qualcun altro subite si apre il conflitto che può divenire mondiale e devastante ed, a volte, ingestibile.
Ma a questo punto possono accadere due cose assai interessanti: l’ ego, prima implosivo, diviene esplosivo, ma questo se, per un verso, diviene spiazzante per chi, fino a quel momento, aveva creduto di conoscere una certa personalità scoprendo che ce n’è una ben più potente, per altro verso quella esplosione ha bisogno di regole perché la rabbia inespressa e sregolata è distruttiva ed autodistruttiva.
Imparare ad ascoltare se stessi significa anche non arrivare ad un punto di non ritorno, significa conquistare la serenità di esprimere il proprio dissenso senza scatenare l’inferno dentro e fuori di noifino ad arrivare ad esprimere il proprio punto di vista semplicemente con voce sommessa, senza urlare, senza alzare i toni.
Sovente il vigliacco è affetto da una grave sordità psicologica, cioè non vuole proprio capire, sentire, ciò che più che chiaramente gli viene detto, e questo solo perché non accetta il “no!”, il “basta!” e non ha nessuna intenzione di mettersi in discussione perché deve poter dire che “sei tu che sbagli”. Ed allora, dopo svariati tentativi volti allo sforzo titanico di “farti scivolare le cose” pur provando a dirgli: “non sono Gandhy! Non superare la soglia che stai rischiando” ecco che alla sordità si aggiunge la miopia, il vigliacco spinge l’acceleratore, va avanti ad oltranza….e si schianta perché a quel punto i giochi cambiano. E quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare!
Ecco, questo è il momento in cui inizia la ballata.
La rabbia è una danza, una partita a scacchi, ha delle regole, che vanno studiate, comprese, apprese, interiorizzate. La rabbia va gestita, non va lasciata a se stessa ma per arrivare a questo prezioso obiettivo occorre riconoscerla e conoscerla, comprenderla e, soprattutto, conoscerne la portata.
Quanto più si accumula quanto più il pericolo aumenta.
Il tempo deve servirci per elaborare non per accumulare! L’accumulo seriale di rabbia può provocare depressione e questa condurre a conseguenze ineluttabili.
La rabbia è un segnale di avvertimento che è bene non trascurare: ci avvisa che qualcuno ci sta facendo del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni o desideri non sono adeguatamente soddisfatti o, più semplicemente, che qualcosa non va. Proprio come il dolore fisico ci costringe a togliere la mano dal fuoco, il dolore della rabbia protegge l’integrità dell’Io e ci induce a dire di no a chi ci sta danneggiando. (Harriet Lerner. La danza della rabbia).
Conquistare la capacità di difendere noi stessi, i nostri diritti, di rispondere con moderazione e continenza, ma decisione, fermezza e determinazione ai costanti attacchi di vuol prevaricare dà ossigeno alla nostra anima, alla nostra autostima, alla percezione che abbiamo di noi stessi e che gli altri avranno di noi e forse, ma sottolineo, forse, anche il vigliacco avrà imparato la lezione ma, e qui viene il bello, questo non ci interesserà più e questo perché la maggior parte dei nostri problemi risiede nella costante ricerca del consenso altrui, chiunque egli sia nel nostro immaginario. Ma fin tanto che lo cercheremo non arriverà perché la fame di consenso è, in realtà, fame di attenzioni.
E qui si delinea il passaggio da thanatos ad eros.
Laura C.
ContinuaIL CAPPELLO CON LA COCCARDA
IL CAPPELLO CON LA COCCARDA
E i sogni della mia vita.
Non cediamo alla tentazione di ignorare il potente segnale emozionale carico di contenuti che il nostro inconscio riconnette a significativi oggetti della nostra esistenza !
Avevo, credo, 26 anni quando mi fu regalato da mia sorella un cappello, a forma di <<bombetta>>, rosso, con un coccardone verde. All’epoca vivevo a Napoli, dove studiavo, ed avevo un sogno, anzi, per la verità, più d’uno. Principalmente volevo diventare ricca e <<fare del bene>>, creare una fondazione che si occupasse degli <<ultimi>>.
Ogni volta che tornavo a casa di mia madre, casa che avevo lasciato dopo la sua morte, avvenuta in maniera del tutto imprevista e fulminea il 22 dicembre del 2000, alle 9,00 del mattino, per aneurisma cerebrale mentre, sole in casa, discutevamo dei preparativi per la vigilia di natale, che non avremmo mai più condiviso, andavo a vedere come stessero i miei numerosi cappelli tra cui quello con il coccardone, acciaccato e pieno di peli (bianchi) nello scatolone insieme agli altri e dove i gatti, nella mia assenza, erano andati a scorazzare.
Avevo lasciato quella casa per andare alla ricerca della mia strada e dove, di tanto in tanto, ritornavo e quando questo accadeva parlavo al mio cappello come fosse stata una persona e gli dicevo: <<un giorno, presto, tornerò a riprenderti!>>: un simbolo, più che un oggetto, di tutto ciò che vi compendiavo, forse la mia stessa vita, anelando, un giorno, a riappropriarmene definitivamente, come di tutto il resto!
Sono tornata in possesso di quel cappello dopo più di venticinque anni! Che grande conquista per me. Naturalmente insieme a lui mi ero riappropriata di tante cose, materiali e non. Mentre lo sistemavo e lo pulivo mi sembrava di stare rimettendo ordine nella mia vita.
Quando l’ho rivisto, a distanza del così tanto tempo frattanto incredibilmente trascorso, recava su di sé gli ineluttabili segni del tempo, come me del resto! Quei segni che persino quando non sono visibili sono percepibili, era anch’esso carico di una malinconica e nostalgica tristezza.
Lo guardavo e pensavo : <<amico mio, quanto abbiamo da raccontarci!>>. Lui era rimasto in quella che un tempo era casa mia, casa di mia madre con la quale amorevolmente e quasi simbioticamente avevo vissuto, ma non era rimasto solo, lo avevo lasciato lì insieme a tutti i miei effetti personali, oggetti cari, abiti, libri, tanti libri, tra cui quelli di musica, il mio pianoforte e Dio solo sa quanti ricordi e quanti sogni!
Quando, finalmente, mi sono riappropriata del mio amato pianoforte e……. del cappello con la coccarda ho pensato: <<eccovi, finalmente! Siamo ritornati insieme>>. Quanto tempo era passato! un battito d’ali, ma erano passati più di venticinque anni! E così, riemergendo la mia razionalità, cercavo di ripercorrerli mentalmente nel tentativo di ricordare come ed in che successione fossero trascorsi, cosa avevo fatto durante tutto quell’arco temporale, la mia vita. E senza che me ne rendessi conto in un attimo mi sono passati d’avanti, come in un film, tutti i principali accadimenti, gli eventi che avevano contrassegnato le tappe fondamentali di quel non breve periodo a cui cercavo di attribuire una successione cronologica. Dicono che quando si muore accada una cosa simile!
E così si sono affollati nella mia mente: la morte improvvisa ed imprevista di mia madre trovata riversa a pancia in giù con i segni evidenti dell’emorragia cerebrale su un lato della testa, la separazione lacerante da quella casa in cui avevo vissuto tanto intensamente, la mia depressione, la mia malattia, la diagnosi di artrite sieronegativa, l’annuncio maldestro del mio prospettato epilogo sulla sedia a rotelle, i diversi studi professionali nei quali, disperatamente, avevo cercato rifugio professionale, l’inizio della mia professione, l’incontro con quello che poi è diventato il mio meraviglioso compagno di vita, la convivenza, l’incontro con mio suocero che si è preso cura della mia salute salvandomi la vita, il matrimonio, i concorsi, le inaspettate conquiste professionali, la separazione dai miei fratelli, la morte di mio suocero, quasi cinque anni in Calabria, da magistrato, alle prese con la mafia, ma anche con un mondo meraviglioso fatto di uno scenario selvaggio e di gente straordinaria, il trasferimento in Puglia, il trasloco, la riaffacciatasi ma non riconosciuta depressione. Quante cose, e certamente qualcuna me ne è sfuggita.
Quanto tempo era passato e di quanto tempo ero stata letteralmente derubata! <<Di quanto cose dobbiamo parlare amico mio!>> dicevo al mio ritrovato cappello. Da quel dì sono trascorsi tre anni e, finalmente, oggi, 11.01.2022, quasi magicamente, già felice di riavere le mie <<cose>> con me, ritrovo il mio tempo. Il tempo per godere di me stessa e ciò anche quando questo porta a ripercorrere passaggi tenebrosi della nostra esistenza ma pur sempre essenziali per il passaggio successivo.
Ciascuno di noi ha un <<cappello con la coccarda>>, simbolo della propria storia e simbolo del percorso esistenziale che ci rammenta come e quanto tempo abbiamo davvero dedicato a noi stessi e quanto tempo, invece, abbiamo elargito ed a volte sprecato per adempiere agli innumerevoli doveri che ci strangolano ogni giorno, soccorrere chi non aveva nessuna voglia di rialzarsi, portarci addosso croci altrui; sottostare alla follia altrui, ma quella vera, fatta di soprusi, di instabilità, di sfruttamento, di egoismo, di cattiveria, di avidità, di narcisismo cronico che prosciugano la nostra energia inducendoci a perdere noi stessi abdicando ogni giorno di più ad ogni particella del nostro essere fino ad arrivare, senza che ce ne rendiamo conto, al suicidio interiore piuttosto che trovare la forza di dedicare quel prezioso tempo a ciò che desideriamo, che merita di essere coltivato perché ci fa crescere e ci fa stare bene con noi stessi e con gli altri imparando a gridare <<NO, basta, ora è il mio turno!>>.
Io il mio cappello l’ho ritrovato e non solo interiormente, lo indosso anche se logoro e quando ciò avviene ci guardiamo e siamo entrambi felici. Ed ora ho appena ricominciato il mio nuovo viaggio con lui e sono già per questo immensamente appagata.
A te amico/a mio, anche se non ti conosco ed anche se non ti conoscerò mai, suggerisco di ritrovare il tuo <<cappello con la coccarda>> e di riprendere il tuo cammino salvifico insieme a lui e scoprirai che è solo l’inizio di un grande <<miracolo>> che partendo dalla tua interiorità cambierà concretamente la tua esistenza per sempre.
Laura C.
Continua
L’ IMPREVISTO
L’ IMPREVISTO
e i contrattempi
“Mi dispiace, ma ho avuto un imprevisto e devo disdire” .”“Ha Dimenticato che mi ha impegnato l orario da cinque giorni ?”
Ho avuto un imprevisto, dovrebbe potersi dire, non ho previsto, non si può essere veggenti per predire tutti i fenomeni, equivale anche ad ammettete che sono stato distratto, non ho calcolato bene i tempi, non ho potuto tener conto, non ho fatto caso, si è sovrapposta una situazione ad un altra.
Oppure, sono un’ottimista che cerca di massimizzare la propria efficienza e che incastra troppi impegni nell’agenda giornaliera che inverosimilmente porterà a termine. Oppure, semplicemente, non riesco a dire di no alle richieste altrui, dando priorità a chi è presente senza tener conto degli altri impegni presi.
Analiticamente, “l’ imprevisto”, ha una connotazione differente , quella difensiva, è una resistenza ad incontrarsi in un nuovo evento ritenuto inconsciamente sconvolgente, oneroso o intriso di paura per un cambiamento.
A volte inconsciamente, accogliamo l’imprevisto nella nostra vita come un segno del destino, troviamo in esso la scusa per crogiolarci e procrastinare, per evitare situazioni scomode senza sensi di colpa.
L’imprevisto, invece, si può e si deve controllare, e se ciò non accade, è una questione di mancata capacità riorganizzativa, sulla base dove il fenomeno precedente diventa secondario rispetto ad un nuovo evento. L’ansia generata dall’imprevisto può occultare la lucidità di pensiero ed alterare i parametri di giudizio.
L’ imprevisto possiede una dimensione sociale, ha la caratteristica peculiare di rappresentare un domino di condizionamenti: disdico perché, ho il covid e sono in quarantena, mi hanno spostato l’ esame ad oggi; il mio relatore non legge la tesi del dottorato e mi lascia in standby da sei mesi.
Questi condizionamenti di vita,, sono forme di imposizioni, di violenza e violazioni agite, dove il più debole attende. Ed in questa attesa, il tempo gli è rubato due volte: non solo non potrà andare avanti nella sua vita, come da programma, ma investirà male il suo tempo, non potendolo pianificare liberamente nell’eventualità che il più forte si faccia vivo.
Imprevisti e contrattempi, sono tutti abusi manifesti, forme di aggressività passive,mobbing, molestie, se reiterate. Il tempo altrui è un patrimonio intimo ed inviolabile, ed il suo rispetto è un diritto umano su cui si fondano le società più evolute. Il rispetto del tempo ha un valore inestimabile perché il tempo è lo stesso uomo.
Chi si trova in una condizione di attesa, muore, si pensi alle lungaggini per i ricoveri o per certe cure che non possono essere erogate, per le file di prenotazioni interminabili. Nelle attese, si bloccano dei meccanismi che, possono dipendere da singole persone “inceppate”, capaci di scatenare tsunami di imprevisti a catena, da mandare in blocco tutta la filiera.
Chi dice ho un imprevisto o, peggio ancora chi non lo dice affatto e lo agisce, inconsapevolmente impone se con la una scelta, si pone nelle funzioni dell’ esercizio di un suo potere prepotente, che avrà le conseguenze su una catena di altri individui.
Nel suo mondo,relativamente osservabile, lascia intendere che la situazione subentrata ha una valenza di gran lunga più importante. Chi esercita l’ imprevisto o lo tace, si comporta da usurpatore, fa del tuo tempo, il suo tempo, una carta appallottolata nel cestino, è come un ladro che ha la mano lesta, è un giocoliere manipolatore degli affari tuoi, ti lascia a bocca aperta perché, è “perfetto” che, che non lo puoi quasi contestare.
Nell’ imprevisto diventi sempre secondario rispetto al resto, equivale a dire, non ho tempo per te, mi interessi relativamente, quasi per me non vali, ma mi devi pensare comunque, una condanna a rimuginare, o a farta pagare senza sapere per quale motivo.
L’ imprevisto ha una valenza squalificante e svalutante della persona, lascia disorganizzati, attoniti, bloccati, ed è generatore di ansia e depressione per le sue conseguenze e lungaggini, è comunque un meccanismo prevalentemente inconscio che induce ad una riorganizzazione, ad un reset, a ricalcolare le agende dei tanti del domino, dove ogni agenda è una vita.
Chi fissa un appuntamento diventa depositario e ci proprietario del tempo e dello spazio altrui, per tutto il periodo di conservazione del patto. Un appuntamento è un timbro di ipoteca su uno spazio della propria vita e la sua disdetta è un porre fine ad un processo senza preavviso.
Dare valore al tempo è solo una questione di crescita personale e di consapevolezza. Davanti ad un imprevisto, l’uomo analitico non si fa prendere da ansie, analizza il problema e ne pianifica la sua risoluzione senza sconvolgere gli eventi successivi e dando valore al tempo altrui.
È indispensabile inserire all’ interno del codice del diritto civile e, ancor più, sensibilizzare sulla cultura del tempo, proprio ed altrui, servirebbero ispettori professionali capaci di far rispettare le fasi lavorative dov’è il tempo viene impiegato. Si pensi al furto di tutti quegli straordinari non riconosciuti e non pagati.
Le società più evolute sono quelle in grado di valorizzare e ottimizzare i tempi. In Giappone il treno a levitazione magnetica deve arrivare alle 11,19, e arriva a quell’ora. Sulla tratta Bari Roma, la freccia rossa deve arrivare alle 11,20, ma arriva alle volte alle 14,30. Consapevole di questo possibile ritardo, l’uomo analitico mette in guardia chi è presente nella sua agenda, lasciando a loro la decisione di rischiare o meno. L’uomo analitico non abusa del tempo altrui, perché impegna bene il proprio.
Coloro i quali invece vengono abusati del proprio tempo, non devono rassegnarsi all’ impossibilità di cambiare, assistere impotenti alla violenza subita, come con lo scoraggiamento e la morte. Al contrario, devono ribellarsi a questa arretratezza culturale, fatta da infrastrutture, burocrazia o individui frenanti, manifestando il disagio, senza timore di essere giudicati.
La gratuità dedicata del propio tempo, è il più grande dono e valore che si possa mai fare. Credo che non ci sia un valore più elevato, se no quello del tempo.
francesca palmieri
giorgio burdi
ContinuaL’ UOMO ANALITICO
L’ UOMO ANALITICO
Ostetrica dell’ anima
L’ uomo analitico appende al chiodo la sua maschera, mette a nudo la sua opera d’ arte, è vero, autentico, è numero uno, aspira al confronto, è reattivo, non disdegna il dolore, lo considera zona intima, ne il conflitto, li ritiene occasioni di sviluppo, si inoltra nei suoi fondali, ci nuota, si immerge, va a fondo più del profondo, va in apnea e sa riemergere, chiede e richiede a chi non risponde, non molla l’ osso, attraversa il buio e vede la luce li dove non c’è, non teme il problema, lo considera la soluzione, non lo schiva, gli va incontro, si impatta, affronta chi lo evita, non procrastina, è nemico dell’ ambiguità, dell’ ipocrisia, dei sotterfugi e delle incertezze, svela il non detto, è insolente, ama l’ indicibile.
Convive con la verità, aborra la menzogna, ha lo sguardo di un hacker, ti guarda dentro ma, ti svela, ma è discreto, è veemente, impertinente, non conosce vergogne, ironico, esprime l’ inammissibile, ama le trasparenze, non si nasconde, non spettegola sugli assenti, perché affronta i presenti, va contro corrente, in avan scoperta, è in prima linea, non attende alcuno e non decide per loro, è intraprendente, non teme l’errore pur di non lasciare l’ intentato, osa sempre e non procrastina, elogia l’ incoerenza, sgama l’ impostore e l’ imbroglione, il serpeggiante e il millantatore, l’ opportunista, non curante di chi ostenta, perché preso dalle proprie risorse e meraviglie.
L’ uomo analitico, non conosce potere se non quello della parola per ogni sibilo e brivido di vita , dialoga sempre, ascolta tanto, ma ti tiene testa, l’ ultima parola è sempre la sua, non ha paura di rispondere, si confronta, schivare il conflitto genera ansia, la risposta è il suo potente,
è collaborativo, non è corruttibile, ne omertoso, ne connivente, non convenzionale, perché la sua legge è la differenza, la simmetria è dittatura, non si lascia manipolare, è comprensivo, osservatore e creativo, improvvisatore, stupisce, non giudica, acceso ribelle contro gli stereotipi, non abita le consuetudini, ne le convenzioni o i dogmi, non è superstizioso, non ha convinzioni, e se ne ha, preferisce averne infinite.
Sa mettersi in gioco, cambia angolo di veduta, va in retro marcia, in divieto d’ accesso, è nauseato dal senso unico o dai luoghi comuni, sa mettersi in discussione, coltiva l’ arte del dubbio, rivede gli schemi di gioco, va al contrario, a ritroso, sotto sopra, di sbieco, di lato, prende la tangente, fintanto che la strada non la trova. Non è diffidente, alla richiesta di consigli, lui risponde, tu cosa senti, perché la sua esperienza non è legge, perché la strada è sempre personale, è un ostetrico che fa partorire se e chi ama e adora quando ognuno è se stesso; accoglie, fa silenzio, è attenti ed è empatico e comprensivo, dedito, raffinato, diplomatico, incisivo e molto affilato.
L’uomo analitico trova il bandolo della matassa, il filo di Arianna, mette tutti d’ accordo, è in grado di tenere insieme e riesce a non tener fuori nessuno, sa farsi contestare, ridisegna il ricamo e ricalcola il percorso, è un leader, conosce l’ esperanto, parla l’ emozione ed è lontano, diverso, ma vicino a tutti, misterioso, lucida la buccia, ma ama la sostanza, è un uomo di contenuti, ma è anche molto pragmatico e carnale, è raffinato ma anche sguaiato, passionale e meditativo, ha sempre tanto da imparare, ci rimette in prima persona, piange, si commuove, si dispera, si incazza e ride a crepapelle, senza nascondersi la faccia.
L’ uomo analitico non conosce vergogne, ne imbarazzi, è umile, ma va a testa alta, è difficile umiliare l’ umile, è astuto, asserivo, imbarazza i sensi di colpa, essi lo temono, fa loro paura, non sanno come incastrarlo, sono austeri, scoraggiati, lo guardano con le braccia scadute, accudisce e da una mano a tutti, non si lava le mani, ma non si sostituisce a nessuno e alle altrui responsabilità, restituisce loro la dignità di potercela fare, condivide i pesi, ma non lascia che diventino un peso, non è la loro stampella, ne il loro bastone, non si lascia ammorbare, si flette, è malleabile, ma non si spacca, è uno speleologo del profondo, uno specialista del problema, ricercatore del minimal e dell’ essenziale, appassionato e revisore delle origini, appassionato delle radici curative, avvia la svolta, non fa ostruzionismo, demagogia, ne lo struzzo, non nasconde la testa sotto la sabbia, riconosce le sabbie mobili dell’ effimero.
L’ uomo analitico, non si scoraggia e non si sconcerta dinanzi alle cadute e alle ricadute, ma, come un bambino, è temerario, si rialza sempre con il gioco tra le dita, si scortica, si rimette sempre in piedi, si disinfetta, torna a giocare, a camminare, a correre e ad avventurarsi nelle sue bizzarrie. Per quanto sia stato vittima del suo passato, sa che non lo potrà addebitare o accreditare sempre a nessuno, ne potrà cambiarlo, potrà solo usarlo per trarne vantaggi, per vivere meglio e rinforzare il suo presente. L’ uomo analitico è l’ uomo del qui ed ora, il suo hic et nunc è il suo cibo, tutto il resto, non esiste, è già stato defecato, è fuori luogo, è fuori tempo, è già partito, la memoria è deceduta e non serve preoccuparsi, ma occuparsi solo adesso.
Considera i sintomi, un gps, la via da ricalcolare, per cambiare rotta per superarli, una mappa per uscire dai suoi labirinti teatrali incastranti, è un uomo di lealtà, ancor più di realtà, i suoi piedi son ben saldi sul suo selciato con l’ anima slanciata oltre i confini del proprio fango,
Se vuole emanciparsi, da valore alle sue origini, non perde tempo sui social nel guardare gli altri, si cura da dentro, se sbaglia non da colpa a nessuno o al suo carattere, al proprio destino, alla fortuna o alla sua sfortuna, perché l’ uomo analitico è determinista, decide, comprende, sbroglia le matasse ed agisce sugli eventi, fa di tutto per non subirli, non fa auguri di buon auspicio o di speranza, non è superstizioso, ma crede che si cambia solo rimboccandosi le maniche.
L’uomo analitico sa assumersi molti doveri, ma sa che dovrà prima o poi votarsi ed abdicare al piacere e ai suoi desideri se non vorrà soccombere, porta a compimento ogni sua opera, che diventa titanica per una vita stellata ma, senza gli slanci verso i suoi desideri, ogni attitudine viene sgretolata.
L’uomo analitico sa, che la sua felicità ha sempre il costo, quello dei suoi fallimenti precedenti e che una volta felice, dovrà ricominciare di nuovo, per altri obiettivi, non c’è felicità senza costi e che non venga prima pagata, perché ogni felicità ha sempre un peso e la sua fatica, essa gira su un cerchio e rigira senza fine tra sconforto, gioia e fallimenti. Il motore di ogni felicità è la sua stessa fatica.
L’ uomo analitico fa paura alla paura, è capace di morire, per questo è in grado di vivere. non perde tempo dietro alle malattie o alla morte, perché ha troppa fretta di vivere, considera l’ ipocondria il collare del mulo, il coraggio che non ha di cambiare, di ripercorrere il tunnel della sua solitudine; l’ uomo analitico si perde e si ritrova, non teme, il deserto intorno, di essere lasciato solo, si smarrisce è fiducioso di ritrovarsi, è sereno, e se si perde esplora i nuovi territori, tutti nuovi da scoprire con le sue nuove avventure, non si preoccupa, e se talvolta teme la propria solitudine, dovrà cercare il mostro che si insinua dentro quella casa.
L’ uomo analitico per poter amare gli altri, ama per primo se stesso, come in aereo, nel caso di improbabile ammaraggio, indossa per primo la maschera per l’ ossigeno, per poi aiutare gli altri. L’ uomo analitico la smette di cercare consensi e conferme, fintanto che comprende che la sicurezza è già insita in se, perché ha sempre il suo numero Uno da interpellare. L’uomo analitico, vive sul suo assetto, sulla propria perpendicolare, lancia il piombo sulle sue oscillazioni, recupera il suo baricentro, ritrova l’ equilibrio e ridisegna le geometrie delle sue relazioni.
L’ uomo analitico sta bene con se e per tanto sta bene con tutti; se è in grado di guardarsi allo specchio, di sorridere e dirsi, ti amo, è in grado di valorizzare gli altri, per quanto valore si da.
Per tutti noi, gli altri valgono, per quanto fango, piombo o carati uno si da; l’ uomo analitico Vive, è fiero ed è grato alla vita, vive Bene. L’ uomo analitico è la sua stessa rivoluzione che cambia il mondo intorno a se che lo circonda.
giorgio burdi
Continua