Bigotta
Bigotta
È una persona esageratamente devota, che aderisce in modo rigido ed incondizionato, ai precetti, ai modi di dire e ai principi popolari e alle sue norme sociali. Rappresenta la massima espressione della contraddizione e dell’ ipocrisia. Tali principi vengono utilizzati in automatico, come dei mantra e come uno scudo protettivo, per difendere le proprie fragilità, tramite rimuginazioni di pensieri, invocazioni ed aforismi automatici, per ribadire che cosa pensa il popolo che regna dentro di sé; ella, se decide di vivere, convive eternamente col senso di colpa.
La bigotta è un animale domestico preistorico che non si estingue, intransigente, ha un cuore di pietra, i suoi neuroni li usa per covar le uova e crescere pulcini, devota alle tavole dei tabù, scrive con lo scalpello i suoi editti, non parla mai con se, ma con i saggi della sua caverna.
Procede con i paraocchi a testa bassa, è un asino sottomesso, vede, a due centimetri da se, solo i suoi totem, tira dritto col, “non ti curar e fidar di alcuno”, è irriconoscente se l’ hai aiutata, è dura come un tufo, irremovibile come un bisonte, figlia della sua ossessione, a protezione dei propri feticci, teme di uscire dal proprio seminato, è complicato farle vedere la naturalezza, filtrata dai mostri del proprio passato.
Non si direbbe, ma è una preistorica contemporanea, una radical chic conservatrice, una global, negazionista ad oltranza, contestatrice delle scienze, è analfabeta di se che non sa come funziona, ma è irremovibile e severa come una Rottenmeier, saccente ed arrogante, non concede chance, affogata nella sua boria ammalata di princípi, teme sempre di essere fregata.
Ha una gran voglia di desideri, perché, da una vita, si nutre solo di doveri , ma se le prospetti dei fuori tema, gioisce, ti ringrazia all’ infinito per la gioia che ha provato. Ma l’abitudine di una vita, timorosa di tutto ciò che è nuovo, con la sovrana diffidenza, la riporta indietro sui suoi passi, all’ interno nel suo ovile e al suo gregge.
La bigotta è una profonda insicura, convinta delle sue incertezze, fa caso alle sue fragilità, solo quando va in crisi, poi si pente e rincomincia, presume di sapere come si vive, ma non lo fa, ma se la orienti oltre i confini, vola, ma poi si schianta e fa game over, su tutti i suoi timori.
La bigotta interpella solo chi la avvalora, non dialoga, si impone, interpella i suoi avi, di coscienza non sa di averne, di intelligenza meno che mai, si isola, si chiude e soffre, non decide mai di suo, se non con il suo numero due. Non è mai saggio, chi non rosica un cambiamento, chi non si muove perché teme di sbagliare, muore chi si ferma per il timore dell’ errore, vive chi si lascia più andare.
Cieca per i propri limiti, intollerante per gli eventuali altrui, accusa, punta il dito e chiude, ti sfiducia alla prima occasione, non conosce ragioni e a prova della sua nevrosi, non la senti e si crea il mostro che non c’è. La bigotta è un iraniano, se prendi un caffè con una donna, ti spara, non le permette di sedersi tra i banchi, se non sa è meglio, le soffoca l’ identità col burqa, la preferisce chiusa in casa a venerare la tradizione dei propri avi carcerieri.
Chi Studia, chi fa scienza, chi fa analisi, si emancipa, vede oltre lo scontato, vede l’ immenso, si gestisce in autonomia, eleva la sua torre, mattone su mattone, per sfidare i turbamenti, le tempeste, i limiti delle cose scontate, delle consuetudini, va oltre i limiti dei limiti. Ogni cambiamento sgomenta, fa sempre temere per i propri principi.
Si emancipa solo, chi guarda l’ orizzonte, oltre chi pone i confini.
L ‘ orgoglio è una vergogna, perché è ignoranza, è una ghigliottina che genera la guerra, perché , lasciare i propri passi a vantaggio di quelli nuovi, può aiutare a migliorare e a comprendere che, la felicità inappagabile, esilarante, può essere veloce e a due passi da noi.
Insomma, che dire ! È una fatica essere bigotta, si vive davvero male, è un lavoraccio, straziante ed usurante, si invecchia molto prima e ci si ammala, sfibra e ti fa a brandelli per una vita intera. Essere bigotta è una agenzia complicazioni affari semplici, è una impresa fallimentare fondata sul no-profit. Basterebbe solo e sarebbe necessario, srotolare semplicemente la propria naturalezza e spensieratezza e tutto sarebbe tutto più spianato.
Attraverso l’ aiuto di qualcuno si può rileggere il proprio manuale, sul come essere più colti con se stessi e naturali e lasciarsi un po’ più andare, sul come gioire di più la vita, da poterla portare fino a dieci, ad un livello intenso. impresa molto ardua per una fedele ad essere Bigotta DOP, ( Bdop), perché se poi riesce ad essere se stessa, temerà sempre lo scontrino col conto da pagare. Uff, che vita scontata, che peccato ! Auguri.
giorgio burdi
ContinuaL’ Invidioso
L’ Invidioso
L’ invidia, dal punto di vista psicoanalitico, viene considerata una difesa contro sentimenti di impotenza e inadeguatezza, in cui l’individuo percepisce una condizione di privazione e mancanza dell’ essenziale per il proprio benessere. È evidente che si tratta di una condizione psicologica, più che solo materialistica.
Freud, la collegava alla fase fallica dello sviluppo psicosessuale. Attraverso l’ “invidia del pene” per le donne, mentre per l’ uomo alla messa in discussione della perdita della sua potenza sessuale: l’ invidioso è una isterica o un impotente.
L’ invidioso, nella sua complessità, è un uomo adagiato su se stesso ed inconsapevole, afflitto dal sentimento della privazione e della sfortuna, dedica gran parte del suo tempo nell’ osservare gli altri, non si affaccenda, non conosce la fatica per emanciparsi, è accartocciato su se stesso, è a “folle” e attende che arrivino tempi migliori fortunati, è retratto ad una condizione neolitica, chiuso come un “orso” , introverso, pensa in vernacolo e farfuglia aforismi social.
L ‘invidioso ti conta gli errori, è un rosicone, di suo ha ben poco, si erge solo per correggerti . Se è in auto, ti sorpassa, ti taglia la strada e rallenta di colpo, è un commerciante che vive della sua pochezza che ostenta, è un triggianese che non è nato barese o milanese.
L’ invidioso, è un bullo, un ossessivo auto condannato che guarda fuori, è una maestrina con la penna rossa che ti bacchetta, fa pettegolezzo, interroga senza spiegare, non da risposte, cela la sua privacy e le proprie malattie, come fossero disgrazie, è un ficca naso che ha solo orecchie, un impertinente che ti spara solo domande e se scova fragilità, ha sa di cosa gioire.
Ti ruba informazioni, è un cleptomane che gira per le tue stanze, guarda in tutti i pensili, vive in tana come un predatore in agguato, non fa cene e dagli amici si nutre a sbafo, di suo consuma molto poco, risparmia sull’ aria che respira , usa le unghie come stuzzicadenti, è un avaro bloccato alla fase anale, dispensa con molta parsimonia, è amico per opportunismo, critico e giudice di tutti, è un maniaco del controllo, del cambiare le carte in tavola, è un radar, misura tutto per difetto; secondo Jung, vive immerso nelle ombre della propria famiglia.
Nella scala genealogica, si pone tra un umanoide ed un umano, tra un asociale ed un sociopatico, è un maleducato, se è generoso è per competere, studia su Facebook , è un isolato, piange sul bordo del letto la sua uno depressione, cinicamente ti sorride, dal viso smunto, si logora nell’ acido muriatico del proprio fallimento.
L’ invidioso, è spento, vive nel buio, su una vedetta, al cospetto delle luci altrui, non curante dei loro sacrifici. Il suo pasto preferito è la frittura, più frigge per te, più ti riconosce il tuo valore. Si biasima e si disprezza da solo, per tutto il tempo che spreca nel non perderti di vista. L’ invidiato è un protagonista, l’ altro uno spettatore, una marionetta, un osservatore, uno che ti ronza attorno come una zanzara, è un avvoltoio che attende di ridere di te, finchè tu diventi una carogna.
L’ invidioso compete, ti sfida e ti diffama. Sei il suo metro di misura, se hai uno, ne vuole due, se dici tre, ne dice sei, si arrampica sugli specchi pur di raggiungerti, ha poche idee, solo le tue, crede nel suo fato avverso, è ludopatico, non paga nessuno, è sempre in pensione, ripiega sul divano per le serie taroccate.
Ti fa i conti in tasca, è uno scroccone e per lesinare, lacera la mortadella con le dita, è senza ritegno. L’ invidioso ha la guerra in testa, si logora da solo, perché non sa come fermarti, ti vorrebbe ammalato, e più vai avanti, più si frustra.
I suoi pensieri, ti contorcono intorno ad un filo spinato, nel quale ti avvolge nel suo reticolato, se in lui incappi, ti immischi, non sa da dove colpirti, piu picchia, più si fa male se resti in piedi, è un condannato alla sua stessa isteria.
L’ invidioso è un superstizioso, fa e teme le sentenze, le influenze malvagie, è uno scaramantico, un complottista, è la voce del popolo. L’ invidiato non conosce superstizione, è uno studioso, un uomo di scienza, con fatica non perde tempo, non crede nell’ invidia e negli spergiuri, se ne fotte dei riti vudù, dei maligni, cartomanti e degli sciamani.
L’ invidiato lo schiva, va diritto per la sua strada, viaggia sulla rotta del proprio talento, nel suo spazio vitale come in un incantesimo ipnotico, fa della propria attitudine la sua missione, lo rende concentrato, fiero di se stesso, sordo ai fracassi delle apprensioni sociali .
L’ invidiato è ambizioso, si slancia sempre più in alto di se, cade mille volte, si rialza per duemila, si riprende, sgobba, soffre, fallisce, si ferisce, si sbuccia, si ricuce e si rimette su, vive di incubi, notti insonni, sa rinunciare, si logora, ma poi si espande, esplode e dilata i suoi territori. L’ Invidiato non chiede o pretende mai, non ci pensa e passa, all’altro, tutto è dovuto, ti crea l’ obbligo, è un politico che se ti da, gli devi.
L’ invidiato è un passionale, un razionale, un uomo che vive di umanità, lotta per la fede del bene umano, del suo progetto, per migliorare il mondo. L’invidioso, sventola la bandiera della propria arroganza, desidera il tuo decadimento, è uno strafottente, non lo sfiora mai un minimo senso di colpa.
L’ invidia è un corto circuito, la subisce chi la vive per l’ inquietudine che produce, l’ invidiato invece è più sereno, perché di queste ansie non ne ha.
L’ invidiato è felice di se e se gli altri riescono, è fiero, gioisce per i loro successi, gli fa festa, non li invidia mai, è generoso del suo tempo e delle proprie risorse, con loro non è mai competitivo o arrogante. Anche se non può, aiuta, gli racconta delle sue fatiche, di come si superano i dirupi, lo sostiene e gli offre tutte e due le mani, crede che nella altrui riuscita e lo sostiene, desidera il suo bene se procede a stento, soffre con lui, lo appoggia e gli offre le spalle.
giorgio burdi
ContinuaIl Mio Silenzio
Il mio Silenzio
Bianco, candido, pulito, ordinato,
Il silenzio si frappone tra il caos dei pensieri,
Gli da un senso, gli dà un posto.
Il silenzio è fresco, intonato,
Come il respiro di chi ami e ti dorme accanto.
Il silenzio ti dà pace, ti dona il tempo, scandisce i pensieri,
Il silenzio può generare sentimenti ambivalenti, contrastanti.. dipende da te.
Se hai paura dei tuoi pensieri, della solitudine delle tue emozioni, il silenzio può essere mostruoso, può generare un tornado di pensieri a cui resti legato, ti trasporta con irruenza e senza sosta, non riesci a padroneggiarlo e si trasforma in rumore assordante.
Ma se sai accoglierne la bellezza e percepirne l’eleganza, il silenzio ti parla, ti risponde. Ti culla, come l’amaca in una pineta, con freschi soffi di vento.
Il silenzio spoglia dalla freneticità dei doveri, dalla ricerca di soluzioni veloci. Dall’assedio cognitivo a cui siamo sottoposti senza concederci tregua.
Il silenzio è la lettura di un libro davanti a un raggio di sole che irradia la stanza,
È una tazza di caffè al mattino sulla balconata,
È andare al mare a guardarci l’orizzonte,
Il silenzio è un momento personale di conoscenza senza giudizio, di ammirazione verso l’infinito del nostro Io, È concedersi di esserci, soli per noi, per guardarci dentro.
Il silenzio è respiro, lento, ritmato.
È sensazione, un momento intimo in cui ascoltarci, sentirci, espanderci.
Quando immagino il silenzio vedo la natura, sentieri, fiori, immagino il calore del sole che supera l’intreccio dei rami in una foresta, ascolto l’acqua della sorgente mentre salgo di quota in montagna.
Sento il ronzio di un’ape che passa di fiore in fiore.
Sono in contatto con quello che ho attorno, sono libera di sentire davvero.
Il silenzio è un momento personale, una parentesi rassicurante, è corpo e anima in sinergia.
Il silenzio non richiede niente, è denso, intensamente assente. Il silenzio è infinità, la nostra, personale infinità.
Dovremmo prendercelo, di dovere,
Regalarci momenti di silenzio,
Donarci la possibilità di sentirci davvero,
di essere intimamente presenti
a noi stessi.
benedetta racanelli
ContinuaEmpatia
Empatia
Empatia etimologicamente vuol dire “ sentire dentro “ , vivere su se stessi lo stato d’animo dell’altro.
Significa connettersi con l’altro.
L’empatia è una funzione fondamentale che contraddistingue l’essere umano, in quanto gli consente di provare su stesso le emozioni, le sensazioni piacevoli o spiacevoli che percepisce da un’altra persona, neuro biologicamente l’essere umano possiede dei neuroni specifici, chiamati neuroni specchio, che si attivano attraverso la visione o la percezione di una determinata emozione, sensazione o azione dell’altro.
Appare quindi chiaro quanto importante sia l’empatia.
La forma più simbiotica di empatia è quella che una madre sperimenta con il proprio bambino
appena nato… si instaura una fusione così profonda da permettergli di rispondere prontamente ai bisogni e alle esigenze del piccolo, in questa fase chiamata identificazione materna primaria,
la madre e il bambino diventano un tutt’uno, l’uno è il prolungamento dell’altro, difficile identificarne e circoscriverne un limite.
Le relazioni umane si basano sull’empatia, la comunicazione stessa trae le sue origini dall’empatia,
sarebbe impensabile relazionarsi, affezionarsi e amare, senza l’empatia.
Nonostante quanto sembra essere solida e imprescindibile questa verità.. nei rapporti umani la
capacità di connettersi con l’altro sta diventando sempre meno presente.
La voglia e la capacità di vedere empaticamente l’altro, di guardargli dentro, di comprenderlo,
sentirlo… sta svanendo.
Ed è la società stessa che ci sta costringendo a farlo.
La società moderna infatti promuove un’idea dell’uomo individualistica, un’idea di relazioni veloci,
facili, relazioni smart. Difatti attraverso le diverse piattaforme basta semplicemente aprire una chat
e parlare, ci si scambiano delle parole, si chiacchiera del più e del meno, di quello che uno fa nella
vita, dei sogni, di sesso, di quello che si è mangiato un’ora prima, e si fa sesso.
Quando ci si annoia si chiude semplicemente l’app. È facile, non servono neanche spiegazioni.
Le relazioni stanno diventando sempre più fredde, egoistiche, nevrotiche. Stanno privando le
persone della magia della comprensione, del dialogo vero, della meravigliosa capacità di entrare
nell’altro e sentire le sue paure, le gioie, le sue voglie sulla propria pelle.
Non sembra così terrificante non sentire l’esigenza di comprendere l’altro?
L’identificazione propria dell’uomo, passa inevitabilmente verso l’identificazione sociale, per poter mangiare devi inizialmente essere nutrito, per poterti vedere devi essere visto.
Per riuscire ad esprimerti devi essere ascoltato. È necessario esistere socialmente per poter esistere
individualmente.
Eppure questa cecità emotiva sociale sta divampando sempre di più, portando bambini, ragazzi,
giovani adulti a non essere visti e non poter ne voler vedere,
Vivendo delle interazioni e relazioni parziali, egoistiche, mascherate, private dell’essenza, dell’anima.
La mancanza di empatia erge muri, circoscrive limiti, priva l’essere di pienezza, toglie l’energia,
ingabbia l’anima.
In questo mondo di mancanze, in questa società che ci toglie anziché renderci, trovo la salvezza…
trovo la pienezza nella psicoterapia di gruppo, all’interno della stanza degli specchi.
In questa stanza è possibile, anzi indispensabile togliersi la maschera. Immergersi nelle emozioni,
lasciarle andare, lasciarle fluire così che tutti i presenti possano viverle, arricchendosi, prendendo e
dando. Le emozioni in questo spazio protetto ci attraversano, in cerchio, lasciando in ognuno
qualcosa in più, arricchendolo, incontro dopo incontro, difesa dopo difesa, dopo ogni sorriso,
lacrima, rabbia, affetto e presenza.
È uno scambio emotivo che ti nutre l’anima prosciugata da un individualismo imposto.
In questa stanza l’empatia prende forma, si riprende il suo spazio, in cambio ti ridona la tua essenza.
Ti fa vivere.
Benedetta Racanelli,
tirocinante di Psicologia presso lo Studio BURDI
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Sposarsi Con Se Stessi
Sposarsi con se stessi.
Oggi, dopo quasi tre anni di matrimonio inesistente, mi sono detta di sì.
Nel 2020, ho sposato l’illusione di un matrimonio: delle promesse volate al vento.
Nel 2023, ho deciso: mi provo un abito da sposa per la prima volta, senza la mia famiglia, sola con me stessa.
Guardandomi allo specchio con un abito semplice ed elegante, mi sono vista splendida e mi sono sentita meravigliosa e bella.
Ho sentito tanto amore per me stessa, come un abbraccio che mi avvolgeva. I miei occhi brillavano commossi da tanta tenerezza sentita.
Dopo tanto dolore, ho capito: la sola persona che ti accompagna nel bene e nel male, in buona e cattiva sorte, nella malattia, sei solo tu.
Esiste una sola me stessa in questo universo, quindi me ne devo prendere cura io.
Davanti allo specchio, vestita da sposa, mi sono detta «Sì, lo voglio». Voglio me.
Oggi mi sono sposata con me.
Sento tanto benessere, tranquillità, quiete ed amore, per me stessa e per gli altri.
Ho immaginato un matrimonio felice con tanto amore. Una famiglia unita e contenta. In quel momento, ho sentito tanta gratitudine.
Ho detto grazie al mio dolore: ti ho ascoltato, ho imparato a conoscerti e a conoscermi, e ti ho capito e accettato.
Guardandomi allo specchio, mi sono accettata con tutte le mie imperfezioni ed incoerenze, follie e voglia di vivere. Prima di sposarsi con qualcuno, bisognerebbe essere sposati con se.
Mi sono detta «Sì».
Eva Blasi
ContinuaTransfert
Transfert
Il termine transfert, trasferire, si riferisce a quel meccanismo emotivo relazionale, attraverso il quale, una nuova persona, viene designata ed insignita dell’ effige, per una relazione seria ed “ideale” . Solitamente del transfert non si possiede la consapevolezza di come l’ altro verrebbe investito di questo ruolo, nel quale il soggetto verrebbe immaginato; il transfert, contrariamente a quanto si possa pensare, può essere utilizzato a vantaggio di una potentissima terapia, qualora la consapevolezza porti a distinguere la rappresentazione del soggetto, con la persona reale.
Il transfert, nello specifico, rappresenta il trasferimento delle sensazioni e del desiderio erotico su un nuovo soggetto, percepito come speciale ed interessante e si pone attraverso una percezione involontaria. Esso viene percepito, come un bisogno liberatorio, atto a tirarsi fuori da un attaccamento malsano, attraverso l’ istinto fantasioso di provare piacere per un nuovo soggetto e rappresenta un tentativo per divincolarsi da una relazione patologica.
Nelle dipendenze affettive, si è alle prese con una lotta di pensieri e preoccupazioni che si dimenano tra il desiderio di voler modificare il soggetto persecutore e il bisogno di liberazione da esso. Nel transfert, il nuovo soggetto viene rappresentato nella sua perfezione, rispetto al disastro che si possiede.
Il transfert rappresenta la liberazione e la speranza che esistano persone differenti rispetto a quelle presenti. Questa speranza inizia a spianare una prospettiva liberatoria dalla dipendenza.
Le relazioni ideali del transfert sono relazioni immaginative, mentalizzate, la psicologia psico dinamica le chiama, relazioni oggettuali. Una dipendenza affettiva, si pone come in un continuo conflitto tra ciò che si immagina dell’ altro e la realtà dei fatti inaccettabili. È una follia, che psichiatrizza, voler lottare per tenere in vita i due parametri immodificabili, l’ immagine e la tremenda verità.
La fatica nel risolversi, da una situazione di questo genere, diviene un circolo vizioso, fintanto che si resta imprigionati in questo tranello, tra relazione presente e relazione oggettuale ideale immaginale, fintanto che esse rimangono confuse. La nostra mente confonde il desiderio antico di un bisogno non soddisfatto, con la realtà presente frustrata.
Il transfert, è un meccanismo difensivo protettivo, esso giunge come un 118 di richiesta di aiuto verso un soggetto di interesse emotivo più elevato, rispetto alla personale condizione di vita, compassionevole e comprensivo e rappresenta la speranza verso la propria terra promessa.
L’ uscita da una dipendenza affettiva disfunzionale, può avvenire dalla decisione di intricarsi emotivamente all’ interno del transfert. L’ “intrico”, in realtà non rappresenta la nascita di una nuova relazione, ma il solo tentativo di uscita dalla relazione deleteria. Se l’ intrico venisse concordato, durante un transfert, con tutta chiarezza e consapevolezza, quasi come un “contratto”, genererebbe un respiro, una percezione di autonomia e di libertà, nel diritto incondizionato di essere se stessi.
Il dato più sorprendente della dipendenza affettiva, viene dato dal fatto che da essa, il più delle volte, non si vuole uscire. Voler risolvere una dipendenza affettiva è come imbattersi in un lutto, un lutto e la fine di un progetto di un sogno, del quale diviene faticoso riconoscerne il fallimento. Questo mancato riconoscimento, ulteriormente, annichilisce e sfianca il soggetto dipendente che resta condannato e imprigionato alla propria condizione. Sarebbe opportuno imparare ad accettare la realtà, soffrirla e magari, aiutati dal transfert, realizzare che il resto del mondo è più affascinante e totalmente differente rispetto a quello sofferto.
La liberazione dalla dipendenza affettiva genera paura. Crea disorientamento e terrore. Ogni distacco, anche quello più patologico, genera sdoppiamento e disorientamento. La frustrazione si dimena tra bisogno e timore del distacco.
Ma chi lo ha detto che affrontare un distacco, debba essere necessariamente preceduto da una sofferenza ? Il dolore è solo mentalizzazione, viene pensato e pertanto sofferta, esso è una ipotesi, richiamato dai timori, che richiama la memoria di un passato di sofferenze, è immaginativo e ciò accade quando si cade nel tranello di attribuire al soggetto di dipendenza, un potere liberatorio dal dolore e dall’ angoscia.
Concedersi ad un transfert, rappresenta il tradire quel potere, è rendersi conto, di li a poco, che tutto potrebbe essere diverso, da quell’ istante inizia ad esistere una nuova prospettiva, l’ opportunità di poter superare il malefico e di sostituire, un oggetto “buono”, con quello “cattivo”. Il transfert rappresenta l’ oggetto relazionale buono per cambiare la direzione, per riprendersi il diritto a ciò che è scomparso, il diritto al proprio benessere.
Il contrario della dipendenza affettiva, è l’ autonomia e l’ auto gratificazione. In questa direzione, vogliamo attribuire, una enorme importanza alla funzione dell’ auto erotismo, come una delle primaria oasi della privacy, di autonomia e di auto realizzazione verso il piacere di se. Esso rappresenta quel luogo di riserva – affettiva, attraverso il quale viene determinato l’ incontro amoroso verso se stessi. La personalità dipendente, attende invece le gratificazioni esclusivamente dall’ esterno, mai da se, ma esclusivamente dall’ altro.
In tale direzione, Il passaggio verso l’ autonomia, diventa difficoltoso, per via dell’ incapacità di perseguire l’ auto gratificazione. Ciò riporta nella dimensione antica del mancato svezzamento di una madre che non ha educato il figlio a procurarsi il piacere in autonomia.
Nello svezzamento c’è il primo esordio dell’ autonomia, nel momento in cui il bambino inizia a prendere il cucchiaio, inizia a non aver più bisogno della mamma. In qualsiasi dipendenza affettiva, la mamma non è mai stata in grado di mettersi da parte, o è rimasta invadente, invalidante con la sua onnipresenza o ancor più, assente;
nell’ auto erotismo,invece, prende forma il primordiale inizio della autonomia, esso si affaccia nella vita del soggetto, già nei suoi primissimi anni di vita, che Freud individua all’ interno della terza fase fallica dello sviluppo psico sessuale, definita fase onanistica auto erotica ; durante l’ uto erotismo la mamma viene blindata fuori dalla propria mente, dalla propria vita, il bambino proclama la sua supremazia, anche se rimane aperta, chiude la porta ad ella e al al mond; l’ auto erotismo rappresenta la palestra verso il riservarsi e l’ indipendenza, verso la ribellione dell’ adolescenza, ove gratificare è bastare a se stesso, ed è decisamente migliore rispetto all’ attesa dei tempi di gratificazione degli altri.
Il passaggio verso lo svezzamento, è molto complesso. trova un muro, una resistenza moralistico – educativa familiare, che chiederà un passaggio di consegne da dagli altri a se stessi, tale da dover tradire “la madre” , il mondo, a vantaggio del proprio primato.
L’ auto erotismo, attraverso l’ oggetto del transfert, si pone come una funzione fondamentale , che tradisce la patologia della dipendenza. Esso rappresenta il ritorno alla propria patria, al potere di auto determinarsi. O predomina l’ Eros attraverso l’ auto erotismo supportato da un transfert, come quel luogo mentale dove accade l’ ideazione , il sognare relazioni slanciate ed autonome, o si lamenta il Thanatos, una vita in prigione, senza il diritto di essere amati, chiusi nelle paure e nell’ isolamento, ossessionati dalle fobie per le malattie
Una dipendenza affettiva, non viene mai superata, se convive con essa un moralismo imperante e la paura per il giudizio sociale per una nuova relazione. Ciò è superabile solo nel concetto di piacere.
Chi ha paura di vivere, è vittima della sua disistima. non tralascia il suo apparente equilibrio; chi è dipendente, desidera solo una persona tutta di un pezzo e per sé, un suo costante punto di appoggio, una fermata su un passo carrabile, tutto ciò che è sanzionabile ma distrugge una relazione; chi si concede alla vita è acquisisce elasticità, fluisce e si stupisce per il nuovo, impara a non farsi sconcertare, è potente per la sua autorevolezza , ha carattere ed è audace.
Le relazioni centrate su l’ indipendenza, le rendono longeve, perché ognuno, rimane imperniato sul proprio talento. È necessario relazionare con personalità che energizzino i vicendevoli talenti, piuttosto che invidiarli, tali da generare relazioni intense, creative e profonde.
In conclusione un transfert, l’ auto realizzazione e l’ autoerotismo, possono rappresentare un vantaggio verso l’ emancipazione di se, possono essere un viaggio o una vacanza anche a tempo determinato, tali da determinare una rimessa su strada, una ripresa del motore, un modo per uscire dall’ isolamento dello svezzamento e poter riprendere la propria vita tra le dita.
Quando arriva questa unica e rara occasione, viviti e goditi il transfert, in totale consapevolezza, stipula un contratto di minima, è la tua occasione, attraverso esplosive, dignitose e rispettose emozioni, è il tuo momento fatale, il tuo ancoraggio, per ritornare a te stesso, il tuo defibrillatore che ti riporta in vita, per stupirti che il battito in te ancora esiste, credere che è ancora possibile ballare, gioire e respirare, che esiste ancora il tuo sogno, che tutto è nuovo e diverso, che c’è ancora motivo di vita, lascia andare il vecchiume, apri la serratura, lascia esplodere le tue sensazioni, apprezzerai quanto è meraviglioso poter perdere l’ affezione al tuo carceriere che sottomette la tua dignità e che la vita esiste ancora ed è tutt’ altro, tanto il transfert trova il tempo che trova, è tutta una scusa, una sola occasione che la mente trova inconsciamente per aggrapparsi e tornare a vivere. Quando ti capita, chiedi, vuoi essere il mio transfert ? Perchè il transfert lo ami e ti fa sentire amata . È solo un gesto di profonda , naturale ed amorevole umanità, per liberarsi dal disumano e tornare ad amarsi.
giorgio burdi
ContinuaLasciar Andare
Lasciar Andare
Lasciare andare è un atto difficile ed è una scelta liberatoria.
È dire di no alle emozioni negative, è togliersi le zavorre di dosso per percorrere la propria strada più liberi e sereni.
L’unica rivalsa con il sé stesso di allora, che non c’è la faceva, è riconoscere la voglia di non voler più adattarsi ad una situazione malsana e il voler smettere di mangiare bocconi amari. È dire di no al costante rifiuto ed è riconoscere il dolore e voler smettere di vivere con questa sofferenza prolungata che prosciuga l’anima.
Lasciar andare per vivere la nuova persona che si è diventati e fare nuove esperienze per scoprire parti di sé che chiedono solo di essere rivelate e vissute.
Davanti ad un muro, in un angolo, la realtà è che noi non ci incontriamo più.
Lasciar andare è un gesto d’amore verso sé stessi e l’altro.
Ti auguro di realizzarti nella vita e di brillare di luce propria, con il cuore cosciente dei propri tesori per esprimerli al meglio.
Va, vivi e diventa la persona solo unica come sei tu, con il tuo proprio arcobaleno.
Eva Blasi
ContinuaL’ Umiliazione della Dipendenza Affettiva
L’umiliazione della dipendenza affettiva
Amare è il valore esponenziale più elevato ed imponente che possiamo vivere e condividere, è il verbo onnipresente più sentito ed agito, reso a volte ridicolo e coniugato nel mondo. Esso ci pone in una modalità ed una forma di eccellenza relazionale, nulla avrebbe senso senza l’ amore umano.
Ma in ogni caso e per diverso genere, necessita del suo equilibrio. A pranzo non consumiamo due grammi o un chilo di pasta a testa o non sorseggiamo in un calice due gocce di nero del Salento o una damigiana ! Ogni cosa possiede il giusto valore se nella giusta misura e perde di qualità nella poca o eccessiva quantità.
L’ amore rappresenta una trappola se è fuori misura. l’ amore donato o corrisposto diviene una galera se è troppo poco o se è esasperato, diventa invasivo. Nella dipendenza affettiva siamo sempre cimentati a riempire dei vuoti, a ricolmare i nostri fallimenti, le nostre delusioni e i bisogni.
Accontentarsi delle briciole d’ affetto, elemosinarle o desiderare tutto dall’ altro, pone le fondamenta verso l’ incastro di una infinita richiesta. È necessario chiedersi se l’ amore per se stessi è superiore all’ amore che si chiede.
L’ amore innanzitutto per se è per quello che si è e per quello che si fa, anzi direi è fare, ciò che si è, rappresenta il calibro che delinea l’ equilibrio all’ interno di una relazione d’ amore, è risolvere innanzitutto i propri vuoti e le personali beghe, è bonificarsi.
Quando non si è mai soddisfatti, contenti, quando è presente una continua criticità, un rancore persistente, una lamentela ed una aggressività passiva, un conflitto reiterato, siamo di fronte alla miglior coltura della dipendenza affettiva.
All’ interno della dipendenza affettiva, ci si perde nell’ altro, la propria identità viene stracciata, ferita, l’ altro diviene il se, si acquisisce il nome e il cognome, si diventa ridicoli, un attore, la smorfia, la maschera, il soprannome altrui, ci si annienta, si diventa stupidi; L’ altro diventa il nostro bullo romantico, all’ altro viene attribuito il potere di farci respirare, di scioglierci l’ angoscia dal petto, di farci esistere. Quando l’ altro diventa la nostra felicità, di lì a poco diventerà il nostro inferno, la nostra ansia perenne. Nella dipendenza affettiva l’ altro rappresenta la vita ed io la morte, lui il tutto, io quasi il nulla, una nuvola, il fumo di un antico toscano, una panna montata, l’ aria fritta in un battito di cuore.
Ci si impasta con l’altro, si si porta l’ anima ad una ustione, ad uno stato di fusione, l’ amore non è uno shake, si rischia di sbattersi, scuotersi tanto da farsi vicendevolmente seriamente male, non serve a nulla questo tipo di frappé di unità confuse. Sono ridicole quelle affermazioni come, cerco “ la mia dolce metà “ , quando ognuno dovrebbe mirare alla propria unita, è una richiesta eccessiva ed una personale ingiustizia farsi completare dall’ altro; cerco “ l’ anima gemella “ , ma se siamo tutti diversi, vogliamo illuderci ? Possiamo essere empatici, sincroni, ma questo accade se ognuno sta bene di suo, le richieste pressanti rappresentano già la fine.
Dovremmo avere più attenzioni e più riguardi verso di noi, dovremmo chiedere mille volte perdono a noi stessi ed essere più seri nei nostri confronti, più compassionevoli, che accattare disperatamente amore.
È umiliante per se stessi e poco dignitoso. Nella dipendenza affettiva ergiamo l’ altro ad una onnipotenza che non possiede, lo viviamo come la terra promessa, il liberatore, il nostro salvatore. Bisogna chiederci da cosa vorremmo effettivamente essere salvati, certamente non da lui. Non si può dipendere dalle promesse altrui se a noi stessi non ne abbiamo fatta neanche mezza.
La promessa più grande che potremmo farci è legata dalla nostra personale progettualità. Senza una propria progettualità, in sintonia con le proprie passioni ed attitudini, siamo tutti in trappola, in pericolo, propensi ed inclini verso un incastro affettivo.
Se lavoro sul mio tutto, l’ altro diviene una parte, se pur importante diverrebbe un valore aggiunto, ma relativo. Ma se l’ altro diviene il proprio tutto, imbocchiamo un intricato tunnel buio.
Ogni storia è buona ed è una potente risorsa, se ognuno sta bene ed è detentore di equilibrio. Chi si accontenta o si logora per l’ ideale, che non esiste, chi persegue il perfezionismo e vuole tutto per se, parte molto svantaggiato, perché la vita è bella perchè è un dono gratuito sempre, per ciò che ci offre e se presi così per come noi siamo.
giorgio burdi
ContinuaLa Lettera Terapia
Scrivere, conoscere e curare
Spesso ci sono ricordi che contaminano i nostri pensieri, che ci condannano a vivere nel passato influenzando inevitabilmente e negativamente il nostro presente. Pensieri, esperienze, vissuti che non riusciamo a raccontare a nessuno, sofferenze e dolori taciuti che echeggiano rimbombanti nella nostra mente.
Il vissuto di ognuno di noi non si può sicuramente cambiare, fa parte della nostra vita, tuttavia relazionarci ad esso con prospettive differenti può aiutarci a vivere i ricordi con stati d’animo diversi, a raggiungere una maggiore consapevolezza di quello che è stato e di noi stessi.
La scrittura può aiutarci ad acquietare i pensieri che ci tormentano, a rasserenare il nostro animo liberandoci pian piano dal dolore. Scrivere è terapeutico se diviene un atto di libertà attraverso l’introspezione e la riflessione. Si può scrivere una lettera a sé stessi, mettendosi a nudo, attraversare la propria interiorità fino a incontrare l’altro, il vero sé. Si può scrivere una lettera alla madre o al padre, gli affetti predominanti e determinanti della nostra vita, a un amico, a un famigliare o al nostro senso di colpa.
Scrivere di tutto quello che ci provoca sofferenza potrebbe inizialmente essere doloroso, triste e angosciante, ma sicuramente ci porterà giovamento. Scrivere richiede solo coraggio, non è importante soffermarsi alla forma, ma farlo in modo scorrevole, naturale; è importante mettersi a nudo, mettersi in discussione senza vergognarsi. Questo permetterà di concentrarsi su ogni passo, su ogni emozione provata ripercorrendo così passo dopo passo tutto quello che ci condiziona, che condiziona le nostre scelte, le nostre decisioni, le relazioni e il nostro umore quotidiano.
È fondamentale non mentire, non sentirsi in colpa nei e dei racconti. È importante parlare di tutto, delle rabbie, dei torti subiti, delle offese, delle mancanze, delle paure, dei rimorsi, dei sogni, dei desideri, dei rimpianti, di tutte quelle parole che per troppo tempo non sono state dette all’esterno, ma che si sono moltiplicate dentro soffocandoci, di tutto quello che molto spesso non osiamo raccontare ad alta voce.
Scrivere aiuta ad evitare che quelle sofferenze interne taciute si trasformino in malessere fisico. Permette di mettere in ordine i nostri pensieri, di fare chiarezza, di sciogliere nodi, sgrovigliare matasse, dissolvere sensi di colpa e superare traumi. Ci dà la possibilità di comprenderci a noi stessi, di discernere le scelte sbagliate da quelle giuste.
Scrivere sviscerando e analizzando interamente le nostre esperienze palesa schemi e meccanismi interiorizzati e riproposti nel tempo. Schemi comportamentali che abbiamo appreso nella famiglia di origine e che per modellamento riproponiamo inconsapevolmente nella nostra vita indipendentemente dal nostro atteggiamento nei lori confronti.
Scrivere aiuta a smascherare meccanismi e relazioni familiari che hanno plasmato la rappresentazione mentale di noi stessi e degli altri, regole implicite, valori, senso di identità e appartenenza, ruoli assegnati, copioni familiari che si ripropongono perfettamente nel tempo.
Scrivere aiuta a svelare pessimi copioni di sceneggiature familiari dove ci sono ruoli predefiniti di chi deve fare cosa e quando rispecchiando perfettamente aspettative già stabilite, copioni che prescrivono e dettano legge su come si deve vivere e che causano disagio e sofferenza.
La scrittura, attraverso le parole che scorrono incontrollabili, organizza le idee, i pensieri e le esperienze emozionali dandone un senso. La scrittura ci aiuta a tirare fuori, a non lasciare più spazio alle frustrazioni, ad accettare quello che è stato con la consapevolezza di non poterlo cambiare, ma con la voglia di cambiare la nostra vita senza ulteriori condizionamenti. Mette in risalto ciò che per abitudine siamo stati e ciò che vorremmo essere ma non siamo per paura del cambiamento o dell’opinione e del giudizio altrui.
Scrivere di sé aiuta anche ad accettarsi, perdonarsi e amarsi. È un valido anti stress, una forma di automedicazione e aiuto psicologico. La scrittura aiuta a darci una nuova immagine di noi stessi, proiettata al cambiamento e alla ricerca di autenticità. La scrittura deve essere intesa come un progetto concreto di cura.
Elisabetta Lazazzera
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